Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


29 giugno 2011

LA SOSTENIBILITA' DI JAMES HOWARD KUNSTLER E QUELLA DI CASA NOSTRA

Parto dalle parole chiave del dibattito urbanistico attuale, sia in politica che tra i così detti addetti ai lavori (i due campi si confondono spesso), quelle che vengono citate ogni tre per due e che, giuste o sbagliate che siano, frutto di riflessione meditata o semplice coazione a ripetere slogan, contribuiscono non poco alle scelte, o alle non-scelte, e quindi ai risultati.
Le parole chiave, i tag, sono l’espressione semplificata di principi, idee, visioni della città ma proprio per sintetizzare devo ricorrere ad un’ulteriore semplificazione, una selezione che necessariamente ne trascura moltissime altre non meno importanti . Ne sono consapevole.
Dunque le parole chiave più ricorrenti sono, a mio parere:
sostenibilità
consumo di suolo
zero volume.

James Howard Kunstler

La prima delle tre, la sostenibilità, è il principio fondante delle altre due, che rappresentano invece il momento di attuazione concreto di quel principio, il modo attraverso il quale si ritiene di conseguire il risultato di rendere qualsiasi atto pianificatorio o edificatorio “sostenibile”. Si potrebbe dire “in principio era la sostenibilità” perché in fondo la sostenibilità si sostiene su un atto di fede politica, essendo le verità scientifiche addotte alquanto controverse, soggette a confutazione e del tutto secondarie rispetto alla profonda motivazione ideologico-lobbistica (vedi lobby )
In questo senso la legge urbanistica della Regione Toscana, già nella sua prima versione, è probabilmente la madre giuridica, e quindi il vangelo dello stato di diritto, di questo principio e delle sue conseguenze. Dice infatti la legge (condenso e semplifico):
La legge promuove lo sviluppo sostenibile, nel rispetto della migliore qualità della vita delle generazioni presenti e future e garantisce la tutela delle risorse essenziali del territorio quali, aria, acqua, suolo ed ecosistema, città ed insediamenti, paesaggio e documenti della cultura, sistemi infrastrutturali.
Nuovi impegni di suolo
(consumo di suolo) sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di realizzazione e riorganizzazione degli insediamenti (zero volume).

Segnalo il tono profetico e salvifico volto a preservare le generazioni future, quindi quelle che ancora non ci sono. Personalmente tendo a diffidare di chi, al di fuori di una visione religiosa e all’interno di una politica, dichiara di preoccuparsi troppo anche per chi ancora non c’è. Mi sembrerebbe sufficiente pensare ai figli e al massimo ai nipoti: andare oltre, più che superfluo è arrogante è pericoloso perché lascia supporre di avere capito tutto anche dell’evoluzione del futuro. Sembra un atto di speranza ma è invece il suo opposto perché manifesta la sfiducia nella capacità delle future generazioni di saper gestire e trovare soluzioni al loro presente. Induce ad un ripiegamento su se stessi, è la fine della speranza, l’interruzione del cammino in una visione lineare del tempo e della storia. Potrebbe trattarsi solo di realismo o di principio di precauzione, ma il primo richiederebbe informazioni e dati più certi, il secondo è negato dal testo della legge e soprattutto dai toni apocalittici che accompagnano in genere la pronunzia di questo assioma.

Si dichiara, infatti, che la sostenibilità è finalizzata alla qualità della vita dell’uomo e si specifica che la “qualità insediativa ed edilizia sostenibile” deve garantire “la sanità e il benessere dei fruitori”. Queste due condizioni vengono però dopo “il risparmio energetico” e “la salvaguardia dell’ambiente naturale”.
Sanità e benessere insieme evocano, più che altro, ticket, liste di attesa e la pubblicità di una SPA in località termale, e questo la dice lunga sulla visione dell’uomo che viene sottesa dalla legge, perché il vero soggetto della legge, e quindi della sostenibilità, sono il risparmio energetico, cioè la Terra, anzi Gaia, e la natura. Al centro della legge, che come tutte le leggi è allo stesso tempo frutto e seme, effetto e causa della società, c’è una Natura idealizzata, non solo buona e da preservare ma anche dotata di valore autonomo a prescindere dalla presenza dell’uomo e quindi un soggetto che ha diritti che l’uomo non può e non deve violare. E’ un totale rovesciamento di fronte rispetto al pensiero e all’azione del mondo occidentale (1).

Ma vi sono altri indizi che la sostenibilità sottenda un giudizio negativo sull’azione umana. Questi si ritrovano nei modi in cui essa viene declinata, cioè nel consumo di suolo e nel volume zero.
Continuando nella lettura della legge (ripeto che questa è presa a titolo di modello esemplificativo di un pensiero) ecco cosa si trova:
Fermo restando quanto disposto dal comma 3, nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. Essi devono in ogni caso concorrere alla riqualificazione dei sistemi insediativi e degli assetti territoriali nel loro insieme, nonché alla prevenzione e al recupero del degrado ambientale e funzionale.
Qui ci sono il “consumo di suolo” e “il volume zero”. A parte la retorica del linguaggio, che depone senza appello a sfavore di tutta la legge, queste prescrizioni sono suscettibili di interpretazioni diverse. Vi si dice in sostanza che occorre prima recuperare ciò che esiste e solo se dimostra che non ce ne è abbastanza per le necessità (su quali siano e come si ottengano, il mitico dimensionamento, è meglio sorvolare) allora e solo allora sarà possibile procedere con nuovo impegno (comunemente detto “consumo”) di suolo.
Il dubbio nasce, non per me ma in base a come vengono generalmente interpretate queste norme, con il periodo successivo che si riferisce non a singoli edifici ma a sistemi insediativi che devono essere riqualificati.
Ora questo comma nel suo complesso potrebbe e dovrebbe essere interpretato nel senso migliore, vale a dire nella necessità di costruire nel costruito, nel densificare la città, sia mediante ristrutturazione che con nuove costruzioni e quindi evitare al contempo il “consumo di nuovo suolo” e di migliorare lo stato di quanto è già costruito, o meglio urbanizzato. Sarebbe non solo cosa ragionevole ma anche corretta e auspicabile, se non fosse che nella vulgata e nell’uso corrente della politica, della tecnica e della burocrazia, per nuovo impegno di suolo si intende, banalmente e stupidamente, nuova superficie coperta e da qui nasce l’equivoco del “volume zero”: ogni nuova costruzione è demonizzata, anche in aree interne alla città, libere ma comprese all’interno di ambiti ormai non più fungibili per l’uso agricolo. Questo è tanto vero che l’assessore regionale all’urbanistica, che di professione è urbanista, la prof.ssa Anna Marson, ha sentito recentemente il bisogno di puntualizzare in un documento che per impegno di suolo non si deve intendere quello all’interno delle aree urbanizzate.

Ma la vulgata resta ed è quella che diffonde il verbo e che impedisce di spostare il dibattito su un livello più alto, di nuovo disegno urbano, indirizzandolo invece verso una generica e improduttiva denuncia contro il mondo delle costruzioni.
Sostenibilità è parola chiave importante e da prendere troppo sul serio per essere lasciata nelle mani di chi la riduce a slogan, luogo comune, passepartout per il politicamente corretto.
C’è un bell’articolo di James Howard Kunstler, dal titolo Ritorno al futuro, che affronta il tema della sostenibilità. Se è vero che Kunstler parte da una visione e previsione alquanto catastrofista, che personalmente non condivido perché in fondo speculare alle previsioni delle città futuriste, è anche vero che il suo approccio al tema città è una ventata di aria fresca, un ritorno alle origini, agli elementi fondativi che hanno determinato la nascita delle città stesse, vale a dire la loro collocazione geografica in prossimità di grandi elementi naturali di comunicazione, fiumi, mari, tracciati naturali terrestri, per affermare che in caso di crollo e declino di molte città - fatto che negli USA è assolutamente frequente in questi tempi di crisi economica - saranno proprio quelle dotate di questa forza intrinseca a sopravvivere, grazie alla possibilità di modificare il proprio modello di sviluppo in maniera meno dipendente dall’energia o con l’uso di energia diversa.

Kunstler consiglia di investire su quelle città, e in futuro vede: le nostre città diventare più piccole e più dense, con un minor numero di abitanti. I grattacieli diventeranno obsoleti, i viaggi saranno ridotti e i confini della campagna più definiti.L’apporto di energia alle nostre economie decrescerà di molto e probabilmente in modo destabilizzante……. Ricordate: le città tradizionalmente esistono proprio in quei luoghi perché occupano siti di importanza geografica e strategica, come la posizione di Detroit su un breve tratto di fiume tra due grandi laghi. Qualche tipo di insediamento continuerà ad esistere nella maggior parte di questi luoghi, ma non nella forma che oggi conosciamo. Saranno luoghi urbani nel senso tradizionale del termine: compatti, densi, ad uso misto, e composti di quartieri basati sul quarto di miglio a piedi dal centro al bordo, i cosiddetti cinque minuti a piedi, che è una norma transculturale che si trova ovunque nelle comunità urbane pre-automobilistiche. Il modello è scalabile: un quartiere è l'equivalente di un villaggio; diversi quartieri e un distretto commerciale fanno una città, e molti quartieri costituiscono una città di medie dimensioni”.....
L'idea di agricoltura verticale è una dimostrazione di quanto sia diventata estrema la nostra tecnograndiosità, e quanto ci siamo allontanati da secoli di saggezza accumulata….. il luogo appropriato per questo (l’agricoltura) è al di fuori della città. C'è una grande differenza tra il giardinaggio e l'agricoltura. Alcune attività sono essenzialmente rurali e alcune cittadine, e abbiamo bisogno di ristabilire questa distinzione”.


Ecco, questa è la sostenibilità che può aiutare il progetto di una città migliore e che non richiede, per esistere, una catastrofe ecologica, ambientale, energetica ed economia prossima ventura, perché è corretta a prescindere, e non le parole d’ordine, o parole chiave, usate a sproposito da noi a soli fini di lotta politica tra chi vuole costruire ad ogni costo e chi vi si oppone con presupposti sbagliati.


Nota:
1) Vedi questa intervista a Giulio Giorello, certamente un laico, fatta da uno studente:
STUDENTE: A proposito del rapporto uomo-natura, perchè l’uomo, invece di coesistere con essa, cerca sempre di prevaricare sulla natura?
GIORELLO: Ogni essere vivente cerca di modificare il proprio ambiente. I castori, per esempio, modificano il corso dei fiumi. L’uomo esprime una volontà di conquista della natura molto più ambiziosa di qualunque altro animale, estendendo il proprio intervento fin dove può. Si pensi all’intera storia delle conquiste spaziali. E’ difficile spiegarne le ragioni. Si può solo dire che quest’ambizione è per l’uomo una condanna e al contempo un privilegio. Il privilegio gli è stato dato da Dio, come è scritto nel Libro della Genesi dell’Antico Testamento in cui il Signore incarica Adamo di "nominare tutti gli animali e tutte le piante". L’esegesi biblica e una esatta traduzione dall’ebraico indicano che Adamo, e pertanto l’uomo, sia considerato il "custode" della natura e non il suo "dominatore". Di conseguenza l’uomo deve considerarsi il responsabile di tutte le creature che abitano la terra, l’acqua e l’aria, e di tutto l’ambiente che lo circonda. L’uomo quindi è anche responsabile di ciò che fa all’ambiente. Nel suo rapporto con la natura l’uomo non può e non deve essere un prevaricatore. In caso contrario la natura "si vendica".

Pietro Pagliardini

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17 giugno 2011

10 DOMANDE SULL'EDIFICIO DI VIA DEL CORSO A ROMA

In stile Repubblica, ma in sedicesimo, avrei 10 domande da porre sul progetto dell’edificio Benetton a Roma, in via del Corso, progettato da Massimiliano Fuksas. In realtà ne avrei altre di domande da porre, ma è preferibile attenersi alla regola del 10.

Il problema è che non so a chi porle queste domande. Quindi è un messaggio dentro una bottiglia lanciato nel mare magnum della rete. Chissà che qualcuno che conosce almeno parte delle risposte non lo legga!

1) L’edificio attuale è vincolato ai sensi della ex 1089/1939?
2) L’area rientra nel vincolo paesaggistico ex legge 1497/1939
3) Se sì ad una sola delle due domande precedenti, perché la Soprintendenza ha rilasciato il nulla-osta e chi ha istruito la “pratica” e chi l’ha firmata (nome, cognome, ruolo)?

4) Il progetto è stato oggetto di un Piano Attuativo o di Recupero, magari in variante, o è stato autorizzato con Permesso di costruzione diretto?
5) Se è stato oggetto di Piano Attuativo o Piano di Recupero, esiste una commissione urbanistica che ha approvato? E con quale motivazione?
6) Come e da chi è composta questa commissione urbanistica (nomi, cognomi, ruolo)?
7) Se è stato autorizzato con Permesso di costruzione diretto, con quale motivazione la Commissione Edilizia ha approvato? Nel caso in cui a monte ci sia stato un Piano Attuativo o di Recupero, la C.E. non avrebbe potuto che prenderne atto, almeno nelle linee generali, ma possibile che nessuno dei membri abbia sentito il bisogno di esternare un disagio, dissociarsi, uscire per farsi mettere assente, far mettere a verbale qualche cosa, dare un segno di vita, insomma?
8) Da chi è composta la Commissione Edilizia (nome, cognome, ruolo)?
9) Chi ha istruito la pratica del Permesso di Costruzione e chi l’ha rilasciata (nome, cognome, ruolo)?
10) Possibile che il Sindaco, gli Assessori competenti, un Assessore qualsiasi della Giunta, qualche consigliere comunale di maggioranza o minoranza, qualche consigliere dei Municipi, qualche Presidente di commissione, qualche politico di prima, seconda o terza fila, qualche mezza tacca qualsiasi nella pletora di amministratori che ci possiamo permettere in questo straricco paese, qualche rappresentante della comunità montana, che sarà scesa anche a Roma immagino, qualche Assessore o consigliere provinciali e regionale, qualche funzionario o tecnico di uno dei numerosi enti, che ci possiamo sempre permettere in questo sempre più straricco paese, in qualche utilissima conferenza dei servizi, qualche funzionario della ASL per il NIP, dei VVFF per l'esame progetto, del Genio Civile per il deposito delle strutture, dell'ufficio commercio per le autorizzazioni, ecc. ecc. ecc., possibile, dicevo, che nessuno abbia visto, saputo, annusato, sentito dire che stava per essere o era già stato approvato un progetto di tal fatta nel centro di Roma, tra le decine di tavoli in cui è transitato, e che abbia mantenuto il segreto, anche con la moglie o il marito? Tutto si potrà dire fuorché passi inosservato!

Certo, manca la domanda regina, la più seria ma anche la più terribile cioè: possibile che sia piaciuto a tutti questo progetto? Ma questa non la voglio proprio porre.

Pietro Pagliardini

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ETERNITA' E VERGOGNA DEL MATTONE

Sul Corriere della Sera di martedì 14 giugno ci sono due belle pagine dedicate a Giorgio Vasari, di cui ricorre il 5° centenario della nascita e di cui si inaugura una mostra agli Uffizi dal titolo Vasari, gli Uffizi e il Duca, cioè Cosimo de’ Medici, che commissionò a Vasari il progetto degli Uffizi. Vi è poi, sempre in relazione al Vasari e alla mostra, un articolo sul rapporto tra l’eternità dei grandi della storia, grandi nel bene o nel male, e l’eternità dell’architettura e della poesia da loro lasciata o a loro dedicata. Titolo dell’articolo: Da Pericle a Hitler: l’eternità è sempre affidata alla pietra. I grandi sono sempre gli stessi: Pericle, Giulio II, Urbano VIII, Cosimo, appunto, il Re Sole, e pure Hitler; per finire con Pompidou e Mitterand.


Si parla di sovrani, di principi diremmo meglio, anche del principe del male per antonomasia. Il giudizio basato sull’eternità del ricordo legato all’eternità delle opere lasciate, non è un giudizio sul valore di ognuno, ma la constatazione del fatto indiscutibile di essere la memoria di molti di questi principi legata indissolubilmente alle opere che hanno voluto e ci hanno lasciato.
Certo che Hitler sarà ricordato per ben altro che l’architettura, anche se il suo stadio olimpico è risorto a nuova gloria con le Olimpiadi di Berlino e con il bell’intervento di adeguamento progettato da GMP, forse il più bell’esempio di recupero e trasformazione di uno stadio che io conosca, splendida fusione di architettura classica e modernità.

Inevitabile e amaro il confronto della “soluzione” del rapporto vecchio-nuovo, con il progetto del nuovo negozio Benetton a Roma, “firmato” da Massimiliano Fuksas e segnalato opportunamente da Giorgio Muratore su Archiwatch.

I nuovi Principi sono le case di moda con i loro stilisti o le varie multinazionali; sono principi del profitto. Ma non è il profitto il problema, anzi, è bene che ne producano molto. Il problema è il ridurre e piegare in maniera scientifica l’architettura, ma direi meglio, la città, a pura merce di scambio, a grande outlet urbano in stile…. come non saprei, modernista è troppo poco ed è in fondo offensivo per i modernisti autentici. Che le società industriali e commerciali necessitino di una immagine architettonica capace di distinguersi è una evidenza. Che questa architettura sia per sua natura pura comunicazione visiva e parte integrante del brand e quindi che la logica dell’oggetto sia assolutamente prevalente su quella del contesto, ed anzi lo neghi proprio per cercare di emergere dal rumore di fondo creato da tutti gli altri concorrenti, è un’altra evidenza.
Ma non c’è giustificazione alcuna perché operazioni come queste vengano perpetrate in danno del centro storico e di quello di Roma in particolare. Non solo chi l’ha progettato, ma chi l’ha approvato dimostra mancanza di senso del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. Qui non siamo al fuck the contest, siamo davvero ad un livello molto inferiore, se possibile. Qui il contest non è solo la città ma lo stesso edificio su cui si interviene con linguaggio sgrammaticato.

Non sono un seguace dell’indignazione, ma immaginare quel progetto (immaginare per poco, perché è in costruzione e lo vedremo finito) in via del Corso, con quelle escrescenze giustapposte sul tetto e quella rete da insaccati che vorrebbe risolvere un angolo, mi rende incredulo perché è come essere alle aste della progettazione e per il fatto che è stato approvato da “organi competenti”. Di cosa siano competenti è un altro bel rompicapo. Ma davvero alle grandi società e ai "grandi" architetti non si può dire di no? Oppure il sì sarà giustificato dalla consunta storiella riciclata che dobbiamo accettare la sfida del nostro tempo?

Dopo aver letto le due pagine del Corriere, non griderò contro la democrazia che non riesce a produrre bellezza, però che debba produrre solo bruttezza, rischia di far vacillare qualche convinzione. Gli ultimi tre sindaci romani, Rutelli, Veltroni e Alemanno avranno lasciato il loro segno nella città di Roma, ma sono certo che non saranno ricordati come Pericle o Giulio II.
Per loro e nostra consolazione non saranno comunque ricordati nemmeno come Hitler.
Non saranno ricordati e basta.

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3 giugno 2011

CAMILLO LANGONE

Ancora Camillo Langone su il Foglio contro i grattacieli:
del 2 giugno

Una conferma che il mal di grattacielo non ha partito né appartenenza. In questo senso è davvero....democratico!

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1 giugno 2011

GREGOTTI A MEZZO DEL GUADO

Dall’ultimo libro di Vittorio Gregotti, Architettura e Postmetropoli, Einaudi, un breve brano tratto dal capitolo XII, Periferie. A seguire un commento.

La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale, connessa anche al tentativo di industrializzazione dell’edilizia come ripetizione estesa “product-oriented”. A nostro avviso, la mescolanza sociale e funzionale è ingrediente indispensabile per la trasformazione delle periferie, trasformazione che per attuarsi deve però passare attraverso un progetto complessivo della specifica parte urbana; cioè oltre che attraverso il completamento efficiente dei servizi e dei trasporti, con la presenza di attività diversificate e di funzioni rare che mettano in relazione obbligata la parte con il resto della città. Tutto questo con una modificazione morfologica che restituisca il senso del tessuto urbano e della prossimità fisica tra le parti (il caso del nuovo piano di Roma fondato sull’idea della costituzione delle 9 centralità nelle periferie ne è un esempio). E’ necessario predicare, diversamente dall’igienismo sociale della prima metà del XX secolo (sospinto anche dalle condizioni di abitabilità inaccettabili dei quartieri operai del XIX secolo e dalla connessione tropo diretta abitazione-lavoro), la mescolanza compatibile di funzioni, di strati sociali, di usi, di servizi collettivi di qualità, cioè dei materiali costitutivi della città storica estesi in modo nuovo alla periferia urbana.

Naturalmente contro tutto questo si costituiscono come difficoltà da un lato il neofunzionalismo immobiliare, che tende a selezionare la destinazione delle aree in funzione del reddito, dall’altro il desiderio di selezione sociale e di difesa dal diverso da parte degli architetti. Di qui l’interrogativo intorno a quali regole morfologiche l’organizzazione di tale periferia possa produrre, quali spazi tra le cose costruite, quali servizi e attività siano ad esse organiche, quali gerarchie, quali compatibilità con le nuove funzioni e relazioni; in che modo, e se, la relazione con la geografia e la storia emerga come identità non deduttiva ma riconoscibile dagli stessi cittadini oltre che dagli architetti. Una concezione quindi della periferia della grande città capace di utilizzare anche la propria posizione e la propria ricchezza di infrastrutturazione accumulata (un modo anche di estendere il principio della ricostruzione della città sulle proprie tracce) costruendo un insieme di centralità dotate di alta mescolanza sociale e funzionale per l’intera città e capaci di articolare e fornire di servizi le distese abitative che già si sono accumulate negli ultimi due secoli. Centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano, cioè di qualità degli spazi tra le cose oltre che nella qualità dialogante delle cose stesse costruite, e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le parti”.

Che dire? Bene, benissimo, in specie la prima parte. La seconda è più tortuosa, involuta e tipicamente gregottiana: problemi in campo non tutti chiaramente comprensibili, affermazioni che lasciano intendere anche altro possibile, propalazione di molti dubbi lasciando intravvedere risposte che lui saprebbe dare ma che non sembra voler dire. In particolare mi sembra incerto, fumoso e soprattutto datato l’interrogativo sullo spazio “tra le cose costruite” con “centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano……e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le sue parti”. Periodo faticoso da leggere tutto d’un fiato e molto acrobatico, tanto per non parlare della strada, che è il vero “spazio tra le cose costruite”, anzi è la strada che genera le cose costruite. Insomma mi sembra un modo per eludere la realtà dello spazio urbano.
Ma l’analisi delle periferie è giusta e il rimedio che viene proposto condivisibile e necessario.

Ciò che mi sembra a dir poco lunare è il fatto che “La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale”.

E’ lunare l’affermazione che sarebbero cinquant’anni che si è scoperto che la periferia è figlia della separazione, e però è dagli stessi cinquant’anni che si continua con la separazione. Perbacco, com’è andata? L’hanno forse scoperta nei laboratori di ricerca dell’università e non ce lo hanno detto? L’hanno tenuta così segreta questa scoperta che, per non farla trapelare, lo stesso Gregotti nei suoi piani, vedi il PRG di Arezzo del 1987, vigente fino a 10 giorni fa, ha continuato nella separatezza più assoluta, nella rigida zonizzazione, sia nelle carte di piano a retini con le zone omogenee, sia nella normativa, e pure nei Piani-Progetto, numerosi, allegati al piano e ampiamente documentati, in cui avrebbe potuto fornire esempio di trasgressione a questa rigida regola?

Tutto il libro, in verità, è sulla falsariga di questo brano: analisi in buona parte giuste, storia tirata un po’ per la giacchetta, nessuna autocritica (sempre confidiamo fiduciosi in quella sullo Zen), visione del mondo improntata ad un marxismo d’antan (ma questo è un punto di vista legittimo e rispettabile). Davvero difficile, almeno per me, tirarne una sintesi e dare un giudizio compiuto e obiettivo, tanti sono gli elementi contraddittori.

Azzardo però a dire che Gregotti possiede senza dubbio tutti gli strumenti per individuare i problemi, per incamminarsi verso la loro soluzione e per modificare radicalmente il suo pensiero sulla città, avvicinandosi fortemente ad una visione urbana vicina a quella della città storica, ma è riluttante, quasi fosse frenato dal timore di apparire troppo semplicistico, di tradire l’immagine tipica dell’intellettuale problematico e pensoso, quello che scopre sempre esserci ben altro e ben oltre, forse di non voler riconoscere gli errori.
Uno sforzo, suvvia, che non succede niente! Età ed autorevolezza sono sufficientementi importante da consentire tutte le trasgressioni, soprattutto se giuste, e ce n’è ancora abbastanza per lanciarsi in nuove avventure.


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