Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


29 giugno 2010

PREGHIERA DI LANGONE CON ELOGIO DEL FIGURATIVO

di Camillo Langone su Il Foglio

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25 giugno 2010

I MISTERI DELLA CHIESA DI SAN PIO

Risvegliamoci e resistiamo al brutto che avanza”: è questo il titolo di un post di Francesco Colafemmina nel suo blog Fides et Forma. Il brutto di Colafemmina è riferito prevalentemente all’arte sacra, o meglio all'arte moderna che di sacro ha assai poco, architettura compresa, ma la frase ha lo stesso valore se riferita all’arte e all’architettura in genere.

Nel suo libro Il mistero della Chiesa di San Pio, progettata da Renzo Piano, il tenace e documentatissimo Francesco dimostra come in quella Chiesa non vi sia praticamente nessun segno tale da poter riconoscere in quell’edificio un luogo di culto cattolico, e questa è già la prova chiara ed evidente di un progetto sbagliato, prescindendo completamente dalla fede, o dalla sua mancanza, da parte di chi giudica. Quella, come molte altre contemporanee, è una Chiesa solo per un fatto di pura comunicazione: si chiama Chiesa, quindi è una Chiesa. Ma, dentro e fuori, di Chiesa cattolica c’è ben poco.


Se un architetto ha l’incarico di redigere un progetto, qualunque esso sia, e alla fine del processo consegna un edificio che non risponde alle caratteristiche e alla funzione richiesta, ma è altra cosa, come chiamare diversamente questo risultato se non errore?
Quali le cause possibili di questa evenienza? Tralascio del tutto la tesi del libro, peraltro assolutamente plausibile e ricca di indizi che in qualche caso potremmo anche chiamare “prove”, in cui si segnala la presenza di simboli riferibili all’esoterismo massonico, e mi limito a considerazioni generali applicabili a qualsiasi progetto o edificio costruito:
- La committenza ha fornito istruzioni ambigue o addirittura sbagliate, tali da lasciare al progettista un ampio margine di interpretazione personale. In questo caso si potrebbe ingenerare confusione nel progettista stesso e metterlo in uno stato di assoluta incertezza, e allora sarebbe probabile un progetto debole e contraddittorio. Non è però il caso in oggetto, perché l’edificio nasce su un impianto planimetrico e volumetrico preciso: quello di una conchiglia a spirale del tipo nautilus. Per questo basta guardare questa tesi di laurea, svolta in maniera del tutto indipendente da ogni influenza esterna.
http://www.youtube.com/watch?v=bRzrbybUmPA
Del resto, che la forma a spirale sia una scelta lo scrive Renzo Piano stesso nella breve relazione al progetto nel suo sito, anche se ci sono schizzi preliminari molto diversi. Dunque in questo caso, dato anche il lungo lasso di tempo trascorso tra progettazione e costruzione, che fa presupporre il fatto che molte persone ne abbiano potuto prendere visione, possiamo ritenere che la committenza fosse ben informata e che abbia condiviso il progetto. E’ perciò da ritenersi che per il committente quel progetto, con tutti gli arredi e opere d’arte presenti, corrisponda alla loro idea di Chiesa.



- La committenza ha chiesto il progetto per una determinata funzione, senza fornire troppe ulteriori specifiche, se non, si può immaginare, un bagdet. Nel caso specifico, trattandosi di una Chiesa e per di più dedicata ad un Santo veneratissimo e oggetto di culto popolare, destinata ad accogliere milioni di pellegrini all’anno, immagino che avranno chiesto anche una grande capienza e un’immagine forte e riconoscibile; richiesta questa implicita nella scelta stessa dell’architetto, il cui nome da solo è capace di produrre interesse, pubblicità, pubblicazioni, foto, interviste, libri, servizi TV e il consueto giro mediatico dell’archistar. Se così fosse l’architetto avrebbe redatto il progetto in maniera autonoma e in piena libertà. D’altro canto al nome Renzo Piano corrisponde una fama e un’autorevolezza tale da ritenere difficile l’imposizione di troppi limiti o intromissioni nella stesura del progetto.
Naturalmente i due casi non sono i soli possibili, essendo più verosimili situazioni oscillanti e intermedie. Ma il dato certo è che il progetto è uscito sbagliato, perché risponde più alla necessità dell’architetto di autorappresentarsi che non a quello di essere un luogo di preghiera, tant’è che le panche sono prive di inginocchiatoio, e non v’è dubbio che il responsabile primo sia il progettista.

Sono stato a San Giovanni Rotondo, circa tre anni fa e, prescindendo dal fatto che la geometria a spirale non è assolutamente percepibile ad altezza d’uomo, né fuori né dentro, confusa com’è con quell’elemento di disordine e di provvisorietà rappresentato dagli archi, i quali invece producono in genere l’effetto opposto di ordine e stabilità, e da quella copertura a corazza di coleottero sospesa su esili elementi metallici che frammentano del tutto la percezione unitaria del volume, che in planimetria appare invece geometricamente preciso e rigoroso, la prima cosa che si nota è l’orientamento della Chiesa, di cui non si trova l’ingresso, se non andandoselo caparbiamente a cercare. Ma poiché uno si scoccia dopo un po’, ci si infila nel primo fra i tanti boccaporti di nave che si trovano aperti e si finisce poi per trovare l’entrata....uscendo. Questa è collocata dalla parte opposta della spianata dalla quale si arriva e, per di più, in uno stretto spazio a ridosso di un muro a retta, e non ho potuto fare a meno di pensare al retro di un ristorante in cui si ammucchiano le casse di acqua e i rifiuti.



Una scelta davvero inspiegabile quella di collocare l’ingresso principale in un vero e proprio anfratto posto sul retro. Quali le motivazioni? Davvero non sono riuscito a darmi la spiegazione e, come me, molti altri.
Ma anche l’interno è disorientante: la selva di archi in conci di pietra che si tengono per effetto della precompressione (un inutile e costoso virtuosismo tecnologico) ha un primo impatto di una certa suggestione ma è solo un attimo, perché la confusione, il disorientamento e il disagio prevalgono. Per camminare si rischia continuamente di battere la testa sugli archi e manca del tutto quel senso di raccoglimento e di rispetto dovuto alla sacralità del luogo; quel sentimento che ti spinge naturalmente a parlare sottovoce, anche se non c’è una funzione religiosa in corso. Delle panche, di buon design e fattura ma senza inginocchiatoio, ho già detto.

Domanda: perché una Chiesa deve essere come una auditorium? Chi l’ha detto che un pellegrino debba pregare per forza seduto o in piedi e non possa inginocchiarsi, se non in terra? Chi ha stabilito che il fronte, debolissimo con un lezioso grigliatino da ufficio aziendale sopra la porta d’ingresso, deve essere nascosto nel retro? Questi sono misteri architettonici della chiesa di San Pio.
Ultima domanda: ma Renzo Piano avrà mai visto una Chiesa? Nessuno gli chiede di essere per forza credente ma è dovere dell’architetto documentarsi e mettersi nei panni di un fedele, oltre che conoscere la liturgia.
A meno che gli sia stato chiesto espressamente di fare una non-chiesa! Nel qual caso, sarebbe solo un brutto progetto di …..non so che cosa.

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23 giugno 2010

COMUNICATO STAMPA

Di contro alle scelte spettacolari della giunta comunale relative ai problemi urbanistici di Roma e delle sue periferie, il Gruppo Salìngaros e l'Associazione Simmetria organizzano il seminario aperto:
Reti urbane e biofiliche a Roma
Via Grazioli Lante, 13, il 28 giugno 2010 alle ore 18:00.

La città è luogo quotidiano di relazioni viventi per gli esseri umani, i suoi nodi non si sciolgono con le archistar, ma con un approccio scientifico per recuperare la coerenza di un sistema d’interazioni complesse. Agli interventi dei relatori seguirà la presentazione del progetto di Ettore M. Mazzola per rivitalizzare il Nuovo Corviale, e una discussione aperta con il pubblico.

Argomenti:
L’architettura e l’urbanistica biofiliche, opposte all’architettura e all’urbanistica patogene.
Le reti, i flussi e la città integrata. Complessità, autoorganizzazione, frattali e unfolding in architettura.
Progettazione pari-a-pari e partecipazione dei committenti.
Metodologie per lo studio dei flussi e per la rappresentazione dinamica e comprensibile delle componenti della città.
La conservazione. La modifica distruttiva.
Microchirurgia urbana.

Patrocini:
Regione Lazio; Provincia di Roma; Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Roma; University of Notre Dame, School of Architecture - Rome Studies; DIPSU Dipartimento Studi Urbani - Laboratorio TIPUS, Università di Roma Tre; Bioarchitettura; Associazione Ditaubi.

Programma:
Presiedono l’ing. Claudio Lanzi ed il dott. Stefano Serafini.
18:00 Presentazione e benvenuto;
18:05 ing. Claudio Lanzi -Presidente Simmetria, Reti a celle poligonali e ottimizzazione delle priorità nelle azioni
18:10 prof. arch. Antonio Caperna - Università Roma Tre, Gruppo Salìngaros, Wholeness e Unfolding come processo di rigenerazione organica
18:15 prof. arch. Alessia Cerqua - Università La Sapienza, Connettività ambientale e reti ecologiche in ambito urbano
18:20 dott. Stefano Serafini - Gruppo Salìngaros, Neurofisiologia e reti;
18:25 exp. Giuseppe Nenna - Innovation Carrier, Ditaubi, Expetence pattern per reti umane e ottimali
18:30 prof. arch. Alessandro Pierattini - Notre Dame University, Gruppo Salìngaros, Il progetto urbano: reinterpretare i caratteri della città spontanea alla luce della coscienza critica
18:35 prof. arch. Ettore M. Mazzola - Notre Dame University, Gruppo Salìngaros, Progettare a scala umana e biofilica: il progetto Nuovo Corviale.
Pausa.
18:45 Discussione.

La partecipazione è gratuita, ma i posti sono limitati ed è dunque è necessario prenotarsi.

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21 giugno 2010

SGARBI!!!

Dopo aver letto questo articolo su Repubblica il pensiero mi è corso a questo parere di Vittorio Sgarbi:

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16 giugno 2010

IL FUTURO TORNA ALL'ANTICO

Pietro Pagliardini

L’architettura che verrà avrà sempre meno tecnologia. La parte di tecnologia presente, lo sarà in maniera meno evidente: sarà più legata la materia e meno alla pompa, useremo dei materiali che faranno un uso selettivo dei raggi solari, dei materiali assorbono l’umidità, che trattengono l’energia.
Andremo verso l’opacizzazione dell’involucro edilizio e l’architettura non sarà più prigioniera della tecnologia.

In campo urbanistico lo spazio pubblico non è uno spazio libero, è uno spazio controllato che gli abitanti della città prediligono rispetto allo spazio aperto naturale.
Chi ha pronunciato queste “profetiche” frasi? Lèon Krier? Ettore Maria Mazzola? Nikos Salìngaros? Carlo d’Inghilterra? Un esponente del New Urbanism?


No, Mario Cucinella, il guru italiano della tecnologia “verde” in architettura. Ho tratto queste frasi da un articolo su Italia Oggi. Anche Kipar, che onestamente non conosco, è in sintonia con quanto affermato da Cucinella.
Una inversione a U, un ripensamento totale. Anche se ancora resta un margine di “modernità”, una scoria, o una via di fuga, in quel sottolineare l’aspetto tecnologico dei materiali.
E’ inevitabile chiedersi il perché di tale svolta, da accogliere senz’altro con favore e soddisfazione.
Tralascio le ipotesi più maliziose, quali una pur legittima operazione di marketing per coprire una fascia di mercato evidentemente in espansione, oppure uno studio più accurato di un po’ di fisica tecnica, scienza niente affatto nuova che attribuisce alla massa e alla sua inerzia termica una buona parte della capacità di isolamento termico, sia in estate che in inverno, oppure l’inverno freddo e piovoso e le ultime notizie sul global-warming di origine antropica con l'uscita di scena di Al Gore, che contribuiscono a creare un clima meno ideologico e un approccio più razionale al problema ambientale, più che climatico, che pure esiste.

Non sarò certo io a condannare chi cambia idea, specie se l’ultima è quella più vicino al vero (non ci si può appellare alla scienza e poi smentirla progettando edifici di vetro e facendoci pure fortuna). L’augurio è che la svolta sia autentica, e non ci sono motivi per dubitarne, data anche l’occasione in cui è stata annunciata (Milano. Festival dell’Ambiente).

Di particolare interesse poi sono le affermazioni sulla città e sui “gusti” dei cittadini, sulle loro predilezioni. Pur essendo i toni, almeno nel resoconto giornalistico, alquanto sfumati e il linguaggio immaginifico, da guru appunto, il senso è abbastanza intuibile: la città di cui si parla assomiglia molto a quella tradizionale, fatta di pieni e non di vuoti, di costruzioni e non di solo verde. Manca molto ancora per definire una città, ma quel poco che viene detto è già qualcosa: niente case in mezzo al vuoto ma una sequenza di spazi continui costruiti ma anche ricchi di verde non indistinto. Una svolta dunque piuttosto coerente con una visione fortemente unitaria tra urbanistica e architettura. Perché l’ha fatta? Davvero mi auguro, ma è sempre in agguato la smentita, che vi sia un clima culturale e ambientale favorevole a queste idee, tanto più importante nel mondo ambientalista che spesso, anche a causa delle semplificazioni giornalistiche, è presentato più come un insieme di slogan e parole d’ordine che non con idee chiare e definite nel campo urbano. Invece ambientalismo e tradizione devono andare di concerto, perché c’è accordo nei fatti.
Temi come quello della densificazione e del contenimento della crescita urbana devono diventare patrimonio comune, inseriti però in una visione in cui la città deve essere considerata una grande risorsa, l’ambiente di vita dell’uomo e il luogo delle relazioni sociali, rifuggendo errori quali i grattacieli più o meno (molto meno) ecologici ma riscoprendo che i nostri centri storici sono densi, vitali e ambientalmente sostenibili.

Una conseguenza collaterale ma per me intrigante è che d’ora in poi, quando verrò accusato di antichismo, reazione, conservazione e tutte le altre contumelie possibili, potrò citare, per coloro che necessitano della certificazione di qualche guru (Maestro, archistar, ecc) senza i quali, evidentemente, non riescono a pensare, potrò citare anche Mario Cucinella nel mio personale albero genealogico, e la cosa davvero mi fa presagire future soddisfazioni.
Come dice il proverbio cinese, mi siederò sulla riva del fiume ad aspettare che passi anche Stefano Boeri, non cadavere, evidentemente, ma convertito dal futuro di agricoltura urbana e di boschi verticali al futuro che affonda le sue radici nel passato.

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7 giugno 2010

LETTERA AL PROF. MURATORE SULLO ..SQUADRISMO!!!!

Gent.mo Prof. Muratore,
ho trovato un Suo scritto del 2003, dal titolo “Distruggere è anzitutto una sconfitta”, pubblicato su AREA e riportato integralmente su Archinfo.it, sulla demolizione di opere di architettura, che mi ha indotto ad una riflessione proprio in relazione all’affermazione di Buontempo di abbattere il Corviale, sostenuta da Il Covile, da questo blog e dal gruppo che fa riferimento a Nikos Salìngaros.
Intanto va detto che la Sua non è una difesa ideologica o critica di questa o quell’altra opera di architettura ma il Suo ragionamento si fonda su un principio generale che ogni opera è comunque degna di rispetto e di attenzione di “amore per la vita delle cose, anche delle più umili e, quindi, più deboli”. Non è, evidentemente, un atteggiamento di infinito amore francescano per il creato, ma la convinzione che l’opera dell’uomo, l’architettura nella fattispecie, qualunque ne sia l’origine e il risultato finale, è sempre degna di essere preservata dalla furia iconoclasta e “distruttiva” di turno, anche se giustificata dalla contingente reazione ad una opposta furia “costruttiva” che ha prodotto opere dal forte valore ideologico e simbolico palesemente sbagliate sia nei confronti del territorio che dell’uomo. Ma Lei non salva e non assolve l’idea che sottende a queste opere-simbolo, quanto l’opera in sé, con il logico presupposto (è una mia “logica” deduzione) che, una volta costruita, essa esiste a prescindere dalle intenzioni buone o cattive dell’autore, e quindi da quel momento assume una vita propria e si separa da colui che l’ha progettata.

Se questo è il significato del suo atteggiamento (e credo non possa essere altrimenti) personalmente io lo condivido del tutto. Rifuggo, infatti, la beatificazione degli autori, riconoscendone tuttavia l’importanza, positiva o negativa, e la responsabilità nell’esecuzione dell’opera. Proprio per questo credo che le opere vadano giudicate per quello che sono e non per tutto quanto sta a monte (la vita dell’artista, la sua storia, le intenzioni, l’appartenenza ad un ismo, ecc.), che indubbiamente serve e deve essere studiato per comprendere meglio e per formarsi una dimensione critica completa, ma che non può assurgere ad un valore di livello superiore al risultato finale e agli effetti prodotti nella realtà.
Su questo punto si gioca, in verità, tutta la differenza tra l'arte antica e l’arte moderna e contemporanea, la quale vive, il più delle volte, più dei suoi presupposti che del valore dell’opera stessa.
Però Lei sostiene anche che:
Di solito, quando tutto ciò avviene, è perché si è scelta la via breve della sopraffazione nella presunzione di essere latori di una verità e di un'autorità che vengono dalla sedicente e contingente autorevolezza di una superiorità culturale che si fa fisica e materiale. Invocare la distruzione di ciò che non piace perché non lo si comprende è stato spesso l'esercizio di quanti nella convinzione ideologica di interpretare altrui bisogni si sono spesso arrogati il diritto di proposte indecenti. Invocare la demolizione di architetture importanti, come nel caso romano il Vittoriano, il Palazzo di Giustizia e il Palazzo della Civiltà Italiana, più amichevolmente noto come Colosseo "quadrato" (che, se non altro, sono state scenografie storiche e straordinarie di Greenewey, di Welles e di Fellini), piazza Augusto Imperatore, lo stesso Corviale quando si sa che l'ipotesi risulta del tutto impraticabile è esercizio stucchevole e isterico buono solo a sottolineare nell'enfasi retorica del gesto squadristico ed esemplare la propria incapacità di dialogo, di tolleranza, di ascolto e di intelligenza con quanto cozza col proprio modello teorico, con la propria utopia, con il proprio frustrato delirio avanguardistico”.

Lei accomuna qui, in un unico paniere, opere molto diverse tra loro quanto a funzione, valore simbolico, tipologia. Le prime appartengono ai temi collettivi, sono cioè edifici specialistici nati con una precisa funzione urbana, certamente influenzate dallo spirito del tempo, certamente controverse, ma gli effetti che esse apportano incidono solo ed esclusivamente sull’immagine urbana, sul maggiore o minore grado di condivisione che esse possono avere tra i cittadini, e quindi sul senso della loro appartenenza alla città stessa; condivisibili o meno che siano, ormai sono entrate a far parte del patrimonio collettivo di Roma, come la torre Eiffel a Parigi, nata come opera provvisoria e che definire bella sarebbe un azzardo, ma che nessuno si sognerebbe mai di abbattere!

Il Corviale è altra cosa. Il Corviale è edilizia residenziale pubblica, cioè quel campo in cui si misura il rapporto che lo Stato instaura, in ambito urbano, con i suoi cittadini meno fortunati. Al Corviale vivono migliaia di persone (6000, 8000, 10000, boh!) i quali devono percorrere, per entrare in casa, ballatoi lunghi oltre 100 metri ed è un’operazione ideologica fatta sulla pelle della gente, utilizzata come cavia. Al quarto piano erano previsti i negozi. AL QUARTO PIANO! Non c’è, ovviamente, chi potrebbe essere così matto da aprire un negozio al quarto piano di un edificio residenziale. Chissà, forse il progettista pensava a negozi “di Stato”!
Qui non si invoca la distruzione di ciò “che non piace” ma, semmai, si ritiene di dover abbattere ciò che il buon senso di persone dotate di normale cervello e stomaco rifiuta.
Il Corviale riguarda certamente tutti i cittadini romani, ma difficile contestare che riguardi prima di tutto quelle migliaia di residenti. Che si provi qualcuno a dire in una pubblica assemblea al Corviale che l’edificio appartiene alla città, come il Colosseo quadrato o il Palazzaccio, e quindi che è la città o, peggio, gli architetti che devono deciderne il destino! Se vogliamo chiamare questo populismo io sono felicemente populista.

Però Lei per il Corviale utilizza una giustificazione diversa, cioè quella che sarebbe ipotesi “impraticabile” e quindi “esercizio stucchevole e isterico buono solo a sottolineare nell'enfasi retorica del gesto squadristico ed esemplare la propria incapacità di dialogo, di tolleranza, di ascolto e di intelligenza con quanto cozza col proprio modello teorico, con la propria utopia, con il proprio frustrato delirio avanguardistico”.
Qui mi perdo. Impraticabile è il suo mantenimento e ancora più la sua ristrutturazione, dato il sistema costruttivo utilizzato, come hanno spiegato bene E.M.Mazzola e memmo54 in un suo commento al post precedente, e non ho sentito obiezioni alle loro affermazioni.

Più raffinata è l’accusa di “squadrismo” e “incapacità di dialogo”. Intendiamoci: raffinata perché proveniente da Lei, di cui io apprezzo la competenza e l’equilibrio, spesso mascherato da un linguaggio romanesco ironico, disincantato e un po’ sbracato, perché le accuse acquistano e hanno un sapore e un significato diverso in base alla loro provenienza. La stessa frase detta, che so, da Renato Nicolini, meriterebbe una risposta sbrigativa alla Muratore.
Lo squadrista non solo impone la sua volontà su quella degli altri ma, peggio ancora, esige che gli altri la pensino come lui. Esattamente ciò che hanno fatto i progettisti del Corviale sulle migliaia di inquilini, come ha ben chiarito la sociologa Amalia Signorelli in quel video linkato nel precedente post in un dibattito a Valle Giulia. Ma Mazzola, Rosponi e Tagliaventi non vogliono imporre un bel niente, hanno proposto una soluzione possibile da sottoporre al vaglio e alla decisione dei residenti!

E’ squadrismo questo? No. Allora è populismo? Neppure. E’ un “normale” processo democratico. Oddio, tanto normale non è, ma lo dovrebbe diventare. Se progetto una casa per un committente privato, nell’ambito delle regole fissate dalla strumentazione urbanistica, questi ha il potere di fare ciò che vuole e il progettista ha l’obbligo di esaudirlo. Se non ne condivide i contenuti, rinuncia. Se il committente è una cooperativa (ma non ne esistono più di quelle vere) il progetto passa all’approvazione dell’assemblea, e non è un rito, mi creda. Il committente pubblico, invece, non può sottoporre il progetto agli utenti, perché non può conoscere prima chi essi saranno, e allora giocoforza si deve sostituire a loro e interpretare, nel migliore dei modi possibile, le esigenze probabili dei futuri inquilini. Non è stato mai fatto: seguire le leggi, applicare i parametri, tutti rigorosamente numerici e punitivi e poi decida l’architetto. Questo è accaduto anche a Corviale. Ma oggi il caso sarebbe diverso. Si conoscono i “clienti” e cioè gli abitanti di Corviale. Oggi c’è la possibilità di farli scegliere.

Quali dunque le scelte possibili?
1) Lasciare tutto com’è e vendere agli abitanti l’edificio. L’Istituto si libera del gravame e lo trasferisce sulle spalle del condominio, cioè dei futuri acquirenti, che si accorgerebbero ben presto di avere acquistato un debito, cioè di avere preso una sòla.
2) Demolirlo in parte, come dicono molti, e integrare, ricucire, aggiungere, trasformare con il risultato di avere comunque persa la memoria del Corviale (un edificio di un chilometro o è di un chilometro o è un’altra cosa) e di continuare a fare esperimenti tecnologici sulla pelle degli altri per ristrutturare le parti rimanenti, che invece sempre Corviale sono.
3) Cambiarne la destinazione facendolo diventare pubblico, farne un “tema collettivo”. Certamente la tipologia edilizia si presterebbe meglio che non quella residenziale, ma la tipologia costruttiva molto meno e poi, dove “collocare” gli abitanti?
4) Demolirlo e sostituirlo con un ambiente urbano, recuperando una parte dei costi con l’incremento volumetrico e con il fatto che il terreno non è un costo, essendo pubblico. Con quale progetto? Tre ne sono stati presentati, si adoperino altri, facciano proposte e facciano scegliere.

Chi si è esposto non teme certamente il giudizio della gente. Altri semmai lo dovrebbero temere. E sono certo che questi chiederebbero un bel concorso, con la solita giuria di professori e delegati degli ordini, insomma, la solita camarilla in cui non crede nemmeno Lei. Quello che sfugge, o forse non si condivide o non si capisce o si teme, è la presenza di una strategia completamente diversa nella costruzione della città le cui scelte possono e devono tornare nelle mani di coloro che ne hanno pieno titolo e diritto, cioè i cittadini: togliere la città dalle mani degli esperti, che avrebbero il compito di proporre e accompagnare, non di imporre e scegliere.
Se questo è squadrismo, sopraffazione delle idee…. Certo che abbiamo idee molto diverse e le vogliamo anche affermare, e credo sia lecito, come anche Lei Professore vorrà convenire, ma, al massimo, è illusione, ingenuità cui Lei ha già dato risposta con quel suo bonario e annoiato titolo: Ancora sull’abbattimento del Corviale…che palle!
Se facciamo tutto quanto è lecitamente possibile per affermare le nostre idee, se chiediamo un confronto su queste con i “clienti”, i media, le istituzioni, perché chiamarlo squadrismo o ideologia che farebbe da contrappunto a quella realmente messa in atto da decenni? Non facciamo mica un blitz con le squadre speciali al Corviale!
Posso capire il principio di precauzione per opere controverse ma qui di controverso c’è solo il giudizio di qualche architetto che si ostina a difendere l’indifendibile perché per il resto tutto è molto, molto chiaro.
Certo di non avere scalfito il Suo disincanto
Cordialmente La saluto
Pietro Pagliardini

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4 giugno 2010

CORVIALE: TUTTO SI TIENE

Questo post è dedicato a tutti coloro che credono nella critica architettonica contemporanea come disciplina avente vita propria e capace di tenere separata l’architettura dalle sue conseguenze tangibili sulla pelle di chi la subisce, quasi un’analisi scientifica e asettica separata dalla società in cui essa opera.

Vittorio Gregotti, Corriere della sera 3 giugno, articolo di Pier Luigi Panza:
A causa di un’interpretazione perversa, nichilista e schizofrenica della globalizzazione, l’architettura sta rinunciando a tre suoi storici principi: quello di modificare il contesto urbano con un disegno razionale e socialmente condiviso, quello di lavorare anche nella piccola dimensione e, infine, quello di intendere la costruzione come metafora di lunga durata”.
Gregotti dice cose condivisibili ma dimentica il suo Zen che non risulta essere “socialmente condiviso”. Sbagliare è ammesso a chiunque, ma non perseverare nella sua difesa ad oltranza. Dunque ciò che dice oggi è giusto ma ciò che continua a pensare è altra cosa.

Renato Nicolini: Cartolina Corviale su PresS/Tletter n° 17
…Ne fa le spese ancora una volta Corviale di Mario Fiorentino. Qualcosa che è stato oggetto di studio, in tutto l’ultimo decennio, in senso esattamente contrario, come intervenire per completarlo e farlo funzionare senza demolirlo. Questo anche per il fascino estetico che ne promana, che aveva particolarmente colpito Bruno Zevi e che per ultimo ha percepito Giorgio Montefoschi inviato dal Corriere della Sera… Una serie d’interventi di delocalizzazione parziale degli attuali inquilini dell’ATER che volessero andarsene, sostituendoli ad esempio con una popolazione studentesca; o di upgrade architecture che si aggiungano modificando; ristrutturazioni parziali e più estese, e restauri – ad esempio della segnaletica; sembrerebbero molto più adeguati ad affrontare concretamente la questione. Corviale ha bisogno di questo tipo d’intervento….avendo lavorato molti anni come assistente nei corsi di Mario Fiorentino, penso che il risultato di qualsiasi architettura dipenda molto da come viene abitata. Fiorentino è stato influenzato dall’ideologia dell’abitazione collettiva, dal valore simbolico che partiva dal Karl Marx Hof di Vienna e dalla sua estrema resistenza all’annessione nazista, per arrivare ai grandi quartieri popolari. Con un’idea degli inquilini forse aprioristica, astrattamente positiva. Per questo insisto sull’importanza di modificare la composizione sociale degli abitanti di Corviale con una robusta iniezione studentesca”.
Qui non c’è niente da condividere e non c’è ripensamento. Anzi c’è una malinconica pervicacia nel difendere l’indifendibile, e molto di più. Queste parole provengono da un altro mondo, che molti immaginano sepolto. C’è ancora l’ingegneria sociale, le persone oggettualizzate a strumento dell’architetto: “penso che il risultato di qualsiasi architettura dipenda molto da come viene abitata”. Vale a dire la colpa è degli inquilini che non sanno abitare.
Sembra la riedizione di una lettera scritta da Le Corbusier nel 1946 ad un certo Malespine:
Alloggiare? Vuol dire abitare, vuol dire saper abitare. Il mondo ufficiale non si occupa di questa questione che in termini elettorali. Ora, l’alloggio è lo specchio della coscienza di un popolo. Saper abitare è il grande problema, e alla gente nessuno lo insegna”.
Ma Le Corbusier non aveva ancora “sperimentato” e potremmo dargli, per così dire, un’attenuante rispetto a Nicolini, che oggi il risultato lo può constatare, se solo lo volesse. E quella trovata meravigliosa del restauro della segnaletica capace, se realizzata, di salvare e rivedere tutta la storia dell’architettura moderna! C’è chi afferma che Le Corbusier sia ormai superato da tempo dalla critica… Forse, dopo la nuova segnaletica, verrà rivalutato, e con lui Fiorentino. Il quale si è ispirato al Karl Marx Hof per la "sua estrema resistenza all’annessione nazista"! Ma nel 1972 Hitler era, fortunatamente, morto da un pezzo!

Giorgio Montefoschi: Corriere della Sera, 2 giugno 2010 – Corviale: il sogno dell’ateneo
Ancora sul Corviale, il chilometro abitativo costruito negli anni Settanta su Progetto di Mario Fiornetino alla fine di della via Portuense, che l’assessore alla Casa Teodoro Buintempo avrebbe voglia di abbattere. Ne parlavo giorni fa con un architetto romano, Giulio Fioravanti. Il quale, oltre a essere assolitamnete d’accordo con tutti quelli che invece vorrebbero conservare questo segno architettonico, forse incompiuto ma certamente di rilievo, mi diceva che, secondo lui, la maniera migliore per rivitalizzare il Corviale sarebbe quella di farci una sede universitari: la sede di Roma Quattro. “E le famiglie?” ho domandato. “Le famiglie-mi ha risposto- rimarrebbero. L’università si potrebbe benissimo sistemare nei due piani del basamento”. Penso che l’idea sarebbe bellissima, e comunque meritevole di essere presa in esame”.
Montefoschi era rimasto affascinato dalla sua prima visita al Corviale di poco tempo fa (vedi qui). Il tema del “segno” ritorna e, pur di non abbattere il segno mettiamoci l’università in coabitazione con gli inquilini dei piani di sopra. E’ giusto, direi, perché i giovani portano allegria e gli inquilini ne godrebbero fortemente e le loro case si rivaluterebbero. Semmai eviterei di metterci la Facoltà di Architettura, perché esiste la seria possibilità che, dai piani alti, professori e studenti possano essere fatti segno di lanci di vasi da fiori da inquilini non proprio soddisfatti degli architetti.

Molto altro ancora ci riserva la stampa, ma è bene non dilungarsi. Piuttosto gettiamo uno sguardo ad alcune vere perle video.
Nientepopòdimenoche Mario Fiorentino che spiega agli studenti il progetto:

Corviale- Architettura a Valle Giulia – parte 1
Benedetto Todaro:
Il Corviale costituisce una specie di topos specifico dell’architettura contemporanea particolarmente caratterizzato non tanto e non solo per la sua realtà effettiva, quanto per il luogo che occupa nell’immaginario collettivo. Quindi Corviale è diventato non soltanto una realtà evolutiva nel tempo, quindi non un Corviale ma tanti Corviali man mano che il tempo andava passando, ma soprattutto è quel Corviale dentro di noi, dentro l’architettura. E’ lì che il discorso diventa intrigante e interessante: cosa è Corviale per noi, cosa rappresenta per noi e a che tipo di riflessione ci induce”.
Non so dire se alla riflessione ha seguito risposta. Mi piacerebbe saperlo però.

Mario Fiorentino spiega agli alunni di un liceo scientifico:
Abbiamo domandato all’Istituto case popolari qual’era lo standard per loro accettabile dal punto di vista dell’amministrazione. Per esperienza loro, praticamente i condomini più grandi che loro fanno e fanno bene, sono circa di 250 appartamenti. Quindi praticamente 250 appartamenti consentivano 5 condomini all’interno di questo sistema. Da qui le 5 porte e da qui i 5 complessi condominiali e da qui i 5 assi su cui è organizzato questo sistema, che è un sistema non di una casa lunga 1 chilometro, che è una cretinata, ma quello di un sistema di assi ortogonali e di assi longitudinali che praticamente attraverso questa maglia organizzano quel sistema che ha una profondità di 250 metri, cioè la sezione di questo elemento qui è una sezione abbastanza complessa di 250, organizzata attraverso questo sistema formale delle cinque porte che riflette un sistema organizzativo interno di 250 appartamenti perché sono 4 condomini da 250 metri”.
Tutto qui? Chi lavrebbe detto che il Corviale altro non sarebbe che il risultato quasi automatico e ottimizzato delle indicazioni date da un amministratore di condominio (pubblico)! Certo, bisogna tenere conto che l’architetto si rivolgeva ad un gruppo di giovani liceali e dunque doveva necessariamente semplificare, però quella battuta sul chilometro, così minimizzante e banalizzante, lascia supporre che vi sia una certa serietà in quello che dice. Ma questo non lo potremo sapere. Resta il fatto che quattro condomini (o cinque, boh, perché si scambiano alloggi con metri e viceversa) lunghi 250 metri, se messi in fila fanno sempre un chilometro e anche un solo condomino di 250 metri strutturato su ballatoi è un mostro, solo un po’ più piccolo. Se fosse vera la storiella raccontata, e io non credo sia vera, sarebbe la dimostrazione dell’incapacità di saper valutare le conseguenze dell’aggregazione di quattro edifici da 250 metri, la cui somma non è stimabile in termini aritmetici perché trascura la promiscuità, la diversa percezione della propria abitazione, il valore simbolico e di “segno” stesso che un edificio di 1 Km comporta. No, io credo ci sia stata precisa volontà e allo stesso tempo indifferenza rispetto alle conseguenze e non sottovalutazione del problema.

Corviale –Parte 2
Mario Fiorentino:
“Ci sono due modi di fare l’architettura. Forse ce n’è uno solo ma è il modo di risolvere certi problemi di architettura. Uno è quello di mettersi nel canale del quieto vivere ed di utilizzare gli schemi supercollaudati che ormai in edilizia si è configurato. E poi c’è la strada della sperimentazione, in un certo senso. E questo appartiene più a questa scala”.
Questa affermazione è certamente autentica ed è il leit-motiv dell’architetto moderno, la giustificazione aprioristica di ogni sbaglio: gli esperimenti, si sa, falliscono, ma, alla fine, qualche volta riescono. In architettura non è successo e inoltre gli esperimenti restano e pesano sulle persone.

Amedeo Schiattarella:
Corviale non è questa sorta di astronave improvvisante precipitata sul suolo romano per gettare panico tra la popolazione, perché in realtà è il frutto di una lunga elaborazione fatta dentro la Facoltà di architettura dagli studenti e dai professori per molti anni, su addirittura idee che nascevano da questa concezione di una città che doveva separare l’edificato dall’area verde e liberare grandi aree da destinare ad ambiente naturale concentrando la cubatura in pochissimi spazi”.
Osservazione pertinente, ma dal tono e dal fatto che “Corviale non getta panico nella popolazione” sembra vi sia una sorta di giustificazione e di adesione al principio dell’elaborazione di chara matrice lecorbuseriana.

Paolo Desideri:
Corviale appartiene certamente ad una idea che nel 1982 ancora mette in scena, mette in figura una cultura abitativa che è sostanzialmente la cultura abitativa della civilizzazione modernista”.
A parte il lapsus della data, Desideri fa un’affermazione vera ma, senza il seguito, difficile da valutare.

Amalia Signorelli, sociologa:
“Credo ci sia stato veramente un’abitudine, un percorso di esperimento in corpore vili. L’architettura italiana si è così massicciamente occupata di edilizia popolare, di edilizia pubblica, sociale e non di edilizia privata perché aveva “carta bianca”, aveva di fronte degli interlocutori che non erano in grado di articolare le proprie esigenze e semmai di fare opposizione alle idee degli architetti, laddove il committente privato, il committente borghese, se non altro articola. C’avrebbe gusti pessimi, filistei, kitsch quanto volete, però siccome paga, pretende”.

Per fortuna che c’è questa signora a raccontarla giusta, pur con la “prudenza” e un residuo di “supponenza” verso il privato ignorante, funzionale però al luogo.

Tutto si tiene, dunque. Critici, architetti, intellettuali, tutti riflettono pensosi sui problemi del Corviale, tutti cercano soluzioni per recuperarlo, ri-usarlo, come diciamo noi architetti, non pensando che se un edificio recente deve essere ri-usato, evidentemente l’uso a cui è stato destinato, o la tipologia per quell'uso, era sbagliato, tutti inneggiano al gesto, lo inseriscono nella “cultura del tempo” e perciò stesso lo assolvono, assolvendo quindi indirettamente anche quella cultura tout court. Ma gli abitanti restano sullo sfondo, merce buona per i servizi sociali, le associazioni di volontariato, i gruppi culturali che li rallegrano con i loro spettacoli e le loro feste dagli immaginifici nomi.
E la sera ognuno di loro torna alle proprie belle case del centro storico, della campagna, dei condomini con portiere, e al Corviale ci restano gli altri. Ma, si sà, il critico deve fare questo, non ha responsabilità nei confronti della società ma solo della sua disciplina! Chissà se avranno mai fatto un convegno su etica ed estetica, etica ed architettura!

Facciano un bel gesto di coerenza, dato che l’Istituto case popolari ha intenzione di mettere in vendita gli appartamenti per liberarsi di un peso, economicamente e socialmente, insopportabile: costituiscano una bella cooperativa, lo comprino loro (la compagnia non manca certo), con il sostegno di imprenditori edili di area che anche questi si trovano, ci vadano a stare, ci facciano un bel Falansterio stile ‘800, case, loft, studi, atelier, un pizzico di Università (ma non troppa perché i giovani sono rumorosi), spazi polivalenti culturali, pista elicotteri in alto, sala cinematografica con una copia restaurata della Corazzata Potiomkin, centro congressi, un albergo per gli amici ospiti, e così il gossip che ora ondeggia tra Capalbio e le masserie pugliesi riacquisterà la sua centralità romana al Corviale.
Una raccomandazione però: nel piano economico-finanziario non sottovalutino i costi di ristrutturazione.

Di seguito il link ad un altro video su Corviale e link a qualche post correlato:

One day at the Corviale

Le Corbusier e lo storicismo
Periferie e archistar
Pratiche pre-moderne dell'urbanistica
Dimenticare Le Corbusier
Sull'edilizia popolare
Dietro il modernismo alcune verità

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2 giugno 2010

MARCO ROMANO: SAPER PROGETTARE

Marco Romano ha, tra i tanti meriti, quello di rendere disponibile parte del suo sapere a chiunque. Nel suo sito, Le belle città, che è archivio di materiale iconografico e documentario sulla città davvero consistente, sono liberamente scaricabili molti testi suoi e di altri. I testi sono raccolti dentro la sezione La teoria estetica. Ma altri ve ne sono nella sezione Ritratti di città.


Di uno di questi, dal titolo Saper progettare, riporto di seguito la parte iniziale:

Progettare città non consiste nel coordinare in un quadro unitario le domande più diverse, da quelle propriamente materiali – il piano del traffico o quelli del rumore o dei servizi - a quelle manifestate dai cittadini nelle occasioni più disparate, a quella di nuove case rappresentata dagli imprenditori immobiliari o a quella della grande distribuzione con i suoi shopping center, perché ciascuna di queste domande ha motivazioni sue proprie, tra loro diverse e incommensurabili, sicché il loro realizzarsi o il loro declinare o il loro modificarsi cambiano di per se stessi i presupposti del quadro del quale cerchiamo la coerenza, un quadro con la pretesa di essere stabile nel tempo che non è tuttavia in grado di imprigionare una realtà mobile.

Il fine cui codesto quadro affida la legittimità della propria pretesa di coordinare i comportamenti futuri dei cittadini anche a dispetto dei loro effettivi desideri è quello di perseguire la loro “vera” felicità, consistente in alcuni diritti universali e immutabili - scuole, ospedali, mobilità, verde – da collocare nella città con i criteri di una razionalità distributiva ispirata all’efficienza tecnica.

Ma la città europea è il terreno della libertà e quale sia il “vero bene” dei cittadini è un campo aperto pertinente alla civitas, che quotidianamente lo affronta con le procedure della sua democrazia: sicché, ogni volta che immaginiamo quale dovrà essere il comportamento a priori più conveniente trattiamo gli uomini non come fini – dei quali ampliare le chance di scelta - ma come mezzi, perché ipotizziamo un criterio di funzionamento della città che considera prevedibili (e quindi di fatto coartabili) i comportamenti, riducendone implicitamente la libertà: i piani più rigorosi sono quelli dei regimi totalitari, quelli che registrano la disperazione dei sudditi e che diventeranno subito obsoleti appena riconquistata la libertà.

"La premessa esplicita di Le Corbusier è infatti la ricerca della felicità. Nessun dolore resiste, dice Le Corbusier, quando uno destandosi tre mattine di seguito ha nella faccia lo splendore vivificante del sole che sorge – commenta Gianfranco Contini che ha assistito a una sua conferenza. Dimentichiamo altamente il diritto di piangere contro ogni meteorologia che ce ne vorrebbe frodare; e in un ottimismo ben più ampio e fondamentale chiediamo che il bonheur, e dico uno stabile bonheur, trovi origini assai più fragili e imponderabili fino dentro al buio urbano...Il suo bonheur è un bonheur moscovita, lo svago è obbligatorio, legislativo e collettivo, e dittatorio è l'invito a una natura di Stato".

Ogni piano che pretenda di avere costruito un quadro di coerenza verrà in seguito smentito, perché la maggioranza che lo approva – tirandolo spesso da tutte le parti come una coperta corta per superare i dissensi – pretende di sottrarre quel campo di decisione alle maggioranze future, le quali hanno tutto il diritto di rivederlo, fin dal giorno seguente alla sua approvazione, interpretando nuove domande o ribaltando la loro precedente gerarchia: come le regole degli standard urbanistici che da tempo non intercettano una domanda sociale reale e le cui tracce restano nelle città come dinosauri estinti e innominati rottami
”.

Il tema della libertà è sempre presente in Marco Romano, fatto alquanto raro negli urbanisti, i quali in genere relegano invece il cittadino a comparsa, strumento costretto a muoversi entro i limiti rigorosi stabiliti dal "regista". Non ingannino gli ostentati apporti partecipativi, per sinceri che siano, di cui è costellata oggi la procedura di formazione di un piano: tutto l’apparato normativo e, prima ancora, l’impostazione culturale con cui si affronta il tema città, sono rimasti impositivi e ispirati alla logica di fondo a suo tempo descritta da Gianfranco Contini.
La mancanza di un “soddisfacente universo simbolico”, come lo definisce in seguito Romano, riduce la città a mero congegno da progettare nelle sue varie parti funzionali. In questo quadro l’urbs non è più il risultato della volontà estetica dei cittadini e la civitas si perde, sovrastata dalla potenza di colui che decide per tutti, indifferente ai desideri e ai bisogni immateriali dei singoli individui, tutti invece obbligatoriamente parte di quell’obbligo alla felicità (da conseguire con la sfera del necessario, con la tecnica e con le funzioni) di cui parla Contini.
Consiglio la lettura di tutto il testo, abbastanza breve da non meritare riassunti.

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