Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


31 gennaio 2009

ARCHITETTURA, SCIENZA E RICERCA - 1°

Pietro Pagliardini

PARTE 1°
L’obiezione ricorrente che viene opposta a chi crede che l’architettura e il disegno urbano, per andare avanti, debbano ritrovare le regole di crescita che hanno sovrainteso alla costruzione della città storica e regole architettoniche che azzerino il grado-zero di zeviana memoria e perciò debbano guardare indietro, facendo un salto di un’ottantina d’anni, e da lì ripartire (tenendo conto del fatto che in queste decadi la società è profondamente cambiata) è quella che recita più o meno così:
la ricerca non si deve interrompere e, come il progresso scientifico è stato reso possibile dalla sperimentazione libera, così l’architettura non può fermarsi, deve ricercare e

1) applicare nuovi materiali;
2) creare nuove forme adatte alla contemporaneità;
3) inventare nuove tipologie per tutte quelle “funzioni” che prima non c’erano e che ora proliferano a flusso continuo;
4) adattare l’architettura alle nuove tecnologie e ai nuovi stili di vita che creano nuovi modi di aggregazione e nuovi tipi di relazione tra la gente;
5) tenere conto dei nuovi bisogni e delle nuove tendenze che nascono nei luoghi professionali della comunicazione ma anche spontaneamente e dal basso nelle fasce giovanili delle periferie emarginate;
6) trovare formule spaziali adatte alle nuove forme di organizzazione del lavoro;
ecc. e devo smettere perché molte altre ve ne sarebbero.

Se è relativamente facile smontare tutte le derivate secondarie di quella prima obiezione (dimostrarlo è relativamente facile, difficile è vincere l’abitudine a pensarlo) molto meno semplice è argomentare la tesi di origine, cioè il fatto se l’architettura sia scienza e perciò debba seguire gli stessi metodi di questa, in particolare per la sperimentazione, oppure sia qualcosa d’altro.
Comincio dalla parte relativamente più facile.

1) I nuovi materiali: ci troviamo di fronte ad una delle tante contraddizioni di questa società che è capace di affermare, anche con forza ideologica quasi religiosa, il principio della sostenibilità e del rispetto delle risorse ambientali e contemporaneamente “sperimentare”, che vuol dire utilizzare, nuovi materiali quasi tutti energivori sia in fase di estrazione delle materie prime che nella produzione edilizia e nella gestione del bilancio energetico degli edifici, contrariamente a quello che la propaganda ci vuole far credere, in ossequio (da parte della propaganda) all’ecologicamente corretto.
Non c’è edificio nuovo, grattacielo, museo o auditorium dalle forme e dai materiali più “nuovi” e fantasiosi, che non venga presentato come eco-sostenibile e autonomo, o quasi, energeticamente. Basta affermarlo perché diventi verità, tanto nessuno si da cura di controllare, visto che quasi mai vengono forniti i numeri e dati in valore unitario (in assoluto non contano niente). Associare quei nuovi materiali alla sostenibilità è una contraddizione scientifica e un raggiro ai danni dell’ambiente. Per altre considerazioni più attinenti al rapporto tra architettura, materiali e benessere psicologico rimando a Nikos Salìngaros (http://en.wikipedia.org/wiki/Nikos_Salingaros) nel libro Antiarchitettura e demolizione.

2) Creare nuove forme: questa affermazione è frutto di un vero salto logico perché viene trasferito all’architettura il metodo che è normale nel mondo dell’immagine, della moda, delle auto che, per vendere, debbono creare sempre nuove accattivanti forme. Ma costruire edifici non è fare abiti o auto, non è moda, insomma, perché gli edifici non sono beni di consumo. E perché un edificio non è un bene di consumo? Basta chiederlo a colui che si fa la casa e che mette in quell’impresa molte aspettative per sé stesso e per i propri figli. Costruirsi la propria casa è un’impresa umana che il più delle volte viene affrontata una volta nella vita e che coinvolge emozioni, sentimenti, impegno dell’intera sfera famiglia, non solo per i costi e per il sacrificio che richiede, ma anche perché la casa diventerà il luogo in cui si svolgerà gran parte della vita di quella famiglia e conserverà il ricordo di gioie, dolori, avvenimenti importanti e preziosi per tutti i membri della famiglia stessa.
L’architettura ha accompagnato la storia dell’uomo, non solo quella scritta dagli storici, ma quella dei singoli individui che hanno preso possesso della natura, hanno occupato un territorio e gli hanno dato forma in base alle loro esigenze vitali per la sopravvivenza e a quelle simboliche, più recondite e segrete. L’uomo ha creato il suo ambiente artificiale di vita, la città, in un confronto continuo con la natura del luogo, modellandolo in base alla geografia, assecondandola o forzandola, se necessario. Decidere che secoli di lavoro e di intelligenza sono stati un errore e ripartire da zero con forme create ex-novo, in maniera astratta, cerebrale, senza relazione con i luoghi e con i bisogni degli individui è una scelta immotivata o meglio motivata da un delirio di onnipotenza, unito spesso ad una buona dose di ignoranza, di pochi che riescono ad imporsi su molti. Quanto al fatto che le forme devono adattarsi alla contemporaneità questa affermazione ribalta il principio di causa-effetto: se la società cambia e richiede nuove forme dell’abitare tale richiesta dovrebbe venire dalla società stessa, cioè dagli individui; invece la storia dell’architettura “moderna” è la storia di pochi intellettuali (peraltro di scarsa attitudine democratica) che hanno imposto un’ideologia a molti. Prova ne sia il fatto che non esiste architetto modernista che sia disposto ad essere giudicato dai cittadini.

L’architettura è diventato il campo dei soli esperti che progettano, giudicano, scelgono, propagandano. Cosa sia adatto alla contemporaneità sono loro a stabilirlo, da molti decenni e nonostante le prove evidenti del fallimento del loro pensiero. Il sistema di potere dall’establishment dell’architettura non è, concettualmente, molto diverso da quello delle grandi dittature del secolo scorso che si arrogavano il diritto di decidere ciò che era bene o male per i popoli. Certo che mancano gulag e campi di sterminio (che non è differenza da poco), è un potere dolce che si basa sulla propaganda, è un sistema raffinato che è stato capace di saldare le istituzioni con il potere economico e quello dei media e che si è arrogato il diritto di decidere per tutti. Si faccia decidere agli interessati cosa intendono per contemporaneità visto che saranno loro che dovranno abitarla e viverla.

3) Inventare nuove tipologie è, il più delle volte, operazione illusoria, come hanno dimostrato Caniggia e Maffei, cui rimando, visto che ogni nuovo tipo è l’evoluzione di uno precedente.

4) L’applicazione di nuove tecnologie, che è certamente importante, raramente richiede nuove forme. Non le richiede per quello che riguarda la comunicazione né per il risparmio energetico, visto che tutta la tecnologia si adatta benissimo alle tipologie tradizionali e le abitazioni che possono vantare alte prestazioni per la certificazioni energetica hanno forma compatta e masse murarie molto elevate, caratteristiche, guarda caso, proprio dell’edilizia tradizionale.

5) Quanto al doversi adattare alle nuove forme di cultura spontanea delle periferie, qui siamo addirittura alla beffa, visto che prima l’ideologia modernista ha creato le periferie come luogo dell’emarginazione, poi giustifica sé stessa e la propria esistenza con l’esistenza di quella emarginazione da essa creata, creando altri non-luoghi emarginanti.

6) L’evoluzione dell’economia mondiale, la delocalizzazione che si ritira sempre più nelle aree deboli economicamente, visto che, fortunatamente, aumentano i paesi ex in via di sviluppo, grazie alla globalizzazione; la recente e purtroppo presente crisi economica ha reso carta straccia i troppi volumi sprecati da economisti e sociologi sulla previsione dell’evoluzione del mercato del lavoro e ha dimostrato non tanto la fragilità del sistema quanto la pochezza dei suoi interpreti e presunti guru, da cui gli architetti hanno attinto tanto entusiasticamente quanto acriticamente.

*******

Insomma, in tutti questi casi la prova della necessità di forme nuove dovrebbe essere a carico di chi le propugna e non di chi le nega, visto che non c’è evidenza alcuna che le renda indispensabili, salvo il fatto di dover obbedire, in molti casi, alla giusta esigenza della comunicazione e del marketing, come ad esempio nel caso dell’architettura industriale o commerciale, che non comporta però il fatto di fare di ogni luogo il luogo della pubblicità.

Invece, grazie ad un processo mediatico-propagandistico straordinario quanto ad abilità, passa tranquillamente il messaggio che occorrono per forza “nuove forme”.
Ma questo è proprio il metodo utilizzato dalla pubblicità: avete mai sentito una pubblicità che dica: “In effetti non abbiamo trovato un motivo vero perché dobbiate comprare questo detersivo rispetto all’altro, visto che risultati e costi sono pressoché identici, però comprate il nostro prodotto perche ve lo diciamo noi”?
Invece la pubblicità dice: “Il nostro detersivo lava più bianco, ma parecchio più bianco!”. E ne porta anche la prova : “Guardate com’è contenta la signora, quanto è soddisfatta del suo bianco! E anche il marito è contento delle camicie pulite. Se volete un marito contento e una famiglia felice comprate il nostro detersivo”.
Il messaggio è stucchevole nella sua mediocrità, ma passa perché fa appello alle emozioni e non è facilmente “falsificabile”, non è soggetto cioè a una smentita e quindi è difficilmente negabile e quindi può essere vero. Come ha più o meno detto un sociologo esperto di pubblicità in TV: “Di fronte ad un giudizio del Tribunale quali prove si potrebbero addurre per condannare come falsa una pubblicità emozionale? Chi è capace di portare l’inconscio come testimone in aula?”.

In un prossimo post affronterò il quesito se e a quali condizioni l'architettura sia scienza ed eventualmente cosa si possa intendere per ricerca in architettura.


Nota: La foto della pianta di San Carlo alle Quattro Fontane di Borromini è tratta da Wikipedia

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20 gennaio 2009

RESET

Pietro Pagliardini

La rilettura di Maledetti architetti di Tom Wolfe, 1981, libro tanto “scandaloso” quanto disdegnato dalla nostra intellighenzia e, credo, il primo a fare un po’ di contro-informazione sul Movimento Moderno, con la sua interpretazione della nascita e dello sviluppo dell’International Style negli USA tutta in chiave di orgogliosa rivendicazione americana contro l'importazione della cultura europea, mi ha suscitato interesse per la relazione tra teoria (e pratica) architettonica e convinzioni politiche di Le Corbusier.

Non che si debba giudicare la qualità di un’opera in base ad un pregiudizio politico sul suo autore ma, nel caso di Le Corbusier (e anche di altri), teorie e opere sono strettamente legate e le teorie hanno fornito la base ideologica per la diffusione delle opere e, viceversa le opere, ognuna delle quali è un Manifesto, mostrano chiaramente quale sia il pensiero che le guida.

Tuttavia, per quanti credessero che il mio giudizio sia frutto di interpretazioni faziose, tratte dal faziosissimo Tom Wolfe, contro colui che più di ogni altro ha segnato l’architettura e gli architetti del secolo scorso, e secondo me anche dei pochi anni di quello in corso, sono andato a cercare altre testimonianze, oltre a quelle di Wolfe e le ho trovate sul libro di Francesco Tentori, “Vita e Opere di Le Corbusier”, laterza, 1980, e su un suo estratto riportato su questo sito http://www.rodoni.ch/busoni/bibliotechina/corbusier/corbusier.html

Riporto in corsivo alcune frasi di Le Corbusier e in rosso estratti del commento di Tentori, avvertendo che le opinioni da me espresse non coinvolgono in alcun modo l'autore che è studioso dell’opera di Le Corbusier e affronta l’argomento in maniera scientifica.

Progetto del 1930
"La città radiosa è sulla carta. E allorchè un’opera tecnica è disegnata sulla carta (cifre e modelli) essa è. La certezza di un’opera risiede nella sua esecuzione concreta solo per i profani, per gli sciocchi o gli impotenti. Quanto a noi attendiamo il “sì” di una Autorità che voglia e che vegli".
Questa frase, che meriterebbe da sola un lungo commento, indica chiaramente quanto l’astrazione dalla realtà, dalla materia, dall’architettura intesa come processo costruttivo e non solo raffigurazione di un’idea ma manufatto che assolve una serie di funzioni per chi vi abita indichi uno spirito più d’artista che non propriamente di architetto-costruttore. Il richiamo all’Autorità che voglia e vegli esprime bene l’alta considerazione di sé stesso e una visione messianica della propria missione.

Lettera scritta da LC il 15 agosto 1946 indirizzata ad un certo signor Malespine.
"Alloggiare? Vuol dire abitare, vuol dire saper abitare. Il mondo ufficiale non si occupa di questa questione altro che in termini elettorali. Ora, l’alloggio è lo specchio della coscienza di un popolo. Saper abitare è il grande problema, e alla gente nessuno lo insegna.
La Francia, il mondo, la società moderna hanno bisogno di alloggi, conoscono la crisi degli alloggi, non riescono a far sollevare né i corpi né gli spiriti, continuano a mancare delle attrezzature indispensabili: gli alloggi con i loro servizi.
Fare figli, costruire dei focolari, disciplinare la loro vita, riempirla di bene, saper far crescere non degli egoisti, ma dei viventi membri di una società vivente, coerente, fattiva non è cosa possibile altro che attraverso l’urbanistica e l’architettura, combinate. Ma chi sa fare questo?".

La domanda è retorica e la risposta scontata: lui Le Corbusier.

Su L'Esprit Nouveau (n. 19, novembre 1923), un elogio della semplicità rivoluzionaria:
"Lenin è seduto alla Rotonda su una sedia di vimini; ha pagato il caffè venti centesimi, un soldo di mancia. Ha bevuto in una tazzina di porcellana bianca. Ha in testa una bombetta e porta un colletto lucido liscio. Scrive per delle ore su fogli di carta da macchina. Il calamaio è liscio e rotondo, di vetro di bottiglia.
Si prepara a governare 100 milioni di uomini
".


Eterno fascino del totalitarismo: unico modo, sembra a Le Corbusier, in quegli anni per uscire dalla soffocante irrazionalità e stupidità del mondo. "Le plan: dictateur": i piani urbanistici devono avere autorità dittatoriale, dichiarerà nel 1932 (“La Ville Radieuse”, 1933).
"Per una strada strettamente professionale, sono giunto a conclusioni rivoluzionarie. Professionalmente, io eseguo i piani per quello che riguarda il mio mestiere, in cui sono buon giudice. Se ciascuno facesse altrettanto e la totalità di questi sforzi particolari fosse armonizzata per il bene pubblico da una autorità, non si avrebbe altro che un "Piano Quinquennale", indiscutibile, ma ineseguibile! Ineseguibile a causa del presente contratto sociale!. Allora?... Il contratto sociale attuale fa fremere, si oppone alle realizzazioni, respinge i provvedimenti indispensabili e urgenti per la salute pubblica. È la VITA che ci ha dettato i nostri piani. Obbediamo alla VITA. Il piano precisa gli obiettivi e richiede le azioni indispensabili... Atto rivoluzionario? E per rivoluzionario si vuol sempre far intendere: distruttivo.
Niente affatto: atteggiamento costruttivo, eminentemente, assolutamente...
".

[Si confronti il testo sopra con queste frasi di Hegel tratte da Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario:
“Allo Stato compiuto appartiene essenzialmente la coscienza, il pensiero, pertanto lo Stato sa ciò che vuole…. Lo Stato è reale;…la vera realtà è necessità: ciò che è reale è necessario in sé… Lo Stato…esiste per sé stesso….Lo Stato è la vita morale concretamente esistente, effettivamente realizzata”
.]
E poco oltre incalza:
"La proprietà è sterile... J.J. Rousseau (nel Contratto Sociale) ammetteva il principio della proprietà individuale del suolo, ma lo faceva precisando istintivamente la doppia funzione di beneficio, ma anche di obbligo: l'uomo possiede quello che egli stesso può coltivare o lavorare. Oggi si possiedono dei terreni ma senza affatto impegnarsi per lavorarli. Peggio, il più inconfutabile diritto giuridico autorizza un proprietario a non lavorarli, a suo piacimento. E improvvisamente, per effetto di questa snaturalizzazione della proprietà, il lavoro grazie al quale funziona la libertà individuale l'entusiasmo creativo, la fede civica e l'operosità collettiva, divengono tutti irrealizzabili .... Chi ha torto? Il piano o lo statuto giuridico? Il programma o la carenza individuale; la vita o la morte; l'azione o l'inazione?".
Come a dire:"Contadini lavorate, la terra non vi appartiene ma con il vostro lavoro diventerete migliori e farete grande lo Stato". Insomma un inno ai Kolkhoz e alla collettivizzazione forzata della campagna.
Ho del tutto trascurato le parti più precisamente architettoniche ed urbanistiche presenti nel libro e nella vasta pubblicistica su LC estraendo solo quelle che ho ritenuto più attinenti a descrivere la visione che il “maestro” ha del mondo e di sé stesso.
Da queste frasi ne esce un quadro illuminante per le conseguenze che ha avuto nelle generazioni di architetti, e che perdurano tutt’oggi, ma desolante sotto il profilo umano e politico.
Qui non si tratta delle debolezze dell’architetto che, sappiamo bene, farebbe di tutto o quasi per vedere affermate le proprie idee e i propri progetti; non sarebbe stato né il primo né l’ultimo nella storia e non mi scandalizzo di questo, anche se da parte di chi non si limita a progettare ma predica “purezza” e rigore ci si dovrebbe attendere qualcosa di più moralmente accettabile. Qui si tratta di un totale disprezzo nei confronti della gente che, dice LC, deve essere educata ad abitare.
Nel secolo in cui, fra contrasti drammatici fino all’abisso degli stermini di massa in Germania, Unione Sovietica, Cina, Cambogia, Armenia, ecc. l’individuo e la sua libertà, cioè la vera modernità, prorompe nella storia e la forma politica della democrazia si afferma a livello di principio e di organizzazione della società in almeno tre continenti, l’architettura è stata guidata da un’ideologia elitaria che è riuscita a imporre una visione da Stato totalitario ed etico in cui il progettista, che opera in sintonia con il potere, non è giudicabile, non può essere messo in discussione, non risponde a nessuno, nemmeno ai propri clienti, e la gente deve essere educata ad abitare.
Si noti la frase immediatamente precedente, cioè “ l’alloggio è lo specchio della coscienza di un popolo”: assolutamente vera e condivisibile ma, unita alla seconda significa che è LC stesso che si incarica di plasmare e formare quella coscienza, non la storia e le scelte libere di quel popolo.

Questa rieducazione all’abitare richiama alla memoria gli spostamenti forzosi di intere popolazioni da uno stato all’altro di staliniana memoria per azzerare ogni legame con le proprie radici, con i propri luoghi, con il proprio abitare e poter creare così l’uomo nuovo.
Resettare l’identità dei popoli per ricominciare d’accapo e plasmare nuovi individui cui si dovrà insegnare ad abitare in nuove tipologie tutte eguali a se stesse, nuovi quartieri e nuove città in cui l’uguaglianza e l'anonimato di ogni “blocco” è la metafora dell’uguaglianza, o meglio dell’uniformità, e dell'anonimato di tutti gli uomini. Edifici che è impossibile riconoscere se non da enormi numeri civici scritti nelle piatte facciate laterali.

Dopo secoli in cui l’umanità ha costruito la storia delle nostre città senza bisogno di architetti arriva Charles-Edouard Jeanneret-Gris che, ricominciando da zero, vuole creare l’uomo nuovo e insegnargli quella che è l’attività principale dell’uomo stesso da quando si è affacciato alla vita sulla terra.
Al nuovo abitante della modernità dovrà essere prima essere cancellata la memoria per poi essere rigenerato con quei principi che lui, Charles-Edouard Jeanneret-Gris (insieme a Gropius, Mies, e altri) conosce e impone. E così potrà far crescere non degli egoisti, ma dei viventi membri di una società vivente, coerente, fattiva …… attraverso l’urbanistica e l’architettura, combinate.

Da parte di questo intellettuale che ha caratterizzato la cultura del secolo scorso, non c'è nessuna percezione della sostanza profonda della modernità, che non è solo sviluppo scientifico, macchine, velocità, ma affermazione di diritti individuali e dei popoli; per Charles-Edouard Jeanneret-Gris, invece, solo aspetti di forma e di forme la cui affermazione richiede, però, come base teorica, l’azzeramento della memoria, appunto, unico metodo per riuscire a imporre quelle nuove, disumane forme.

Qual è l’eredità più pesante che ci lascia Charles-Edouard Jeanneret-Gris e perché è ancora così profondamente pervasiva? Per le opere forse? Se fosse per quelle non ci sarebbero molti problemi: Chandigarh è una città fantasma semi-abbandonata tra le sterpaglie (si guardi questo recente filmato)
http://it.youtube.com/watch?v=N-qwn1U2nvg; gli altri edifici, privi di manutenzione costante sarebbero già spariti velocemente e se qualcuno rimanesse sarebbe anche un bene, come testimonianza e memento.
Il danno incalcolabile è nella trasmissione di quel metodo che ha investito (e investirà) generazioni di architetti inculcando loro (me compreso) l’idea di essere form-givers, creatori di forme, unici detentori della verità trasmessa dal Sommo sacerdote e a lui direttamente pervenuta dal platonico mondo delle idee, l’Iperuranio, cioè “quel mondo oltre la volta celeste che è sempre esistito in cui sono le idee immutabili e perfette, raggiungibile solo dall'intelletto, non tangibile dagli enti terreni e corruttibili” (1).

Possiamo forse forse confutare idee immutabili e perfette per definizione?



(1)definizione tratta da Wikipedia
Le foto aeree sono tratte da Google Earth e si riferiscono a Kaunas, Lituania, con "umanissimi" quartieri realizzati dall’URSS, che si estendono per chilometri, sempre uguali a sé stessi.

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13 gennaio 2009

DAI SUPERLUOGHI ALLE CITTA'

Pietro Pagliardini

C’è un ottimo articolo di Pierluigi Panza sul Corriere della Sera del 12 gennaio, dal titolo “I superluoghi, qui nasce la nuova città”.
Inutile riassumerlo perché è bene leggerlo. Quello che mi sembra importante è il fatto che Panza abbia rilevato l’importanza del problema di quelli che vengono chiamati superluoghi, cioè quelle aree che addensano attività e persone come Outlet, grandi centri commerciali, aereoporti, fiere e quant’altro di simile. Spesso cattedrali nel deserto per il consumo che comportano grandi spostamenti di massa per l’acquisto, lo svago, i collegamenti ecc.

Anche se si propone di non chiamarli “non-luoghi” ma "superluoghi", quelli restano “non-luoghi”, cioè aree specializzate fuori dai centri abitati che sono la forma esasperata e parossistica dello zoning, cioè della specializzazione per aree, della non-città, peggio, della polverizzazione della città a scala territoriale, che devono avere il solo  requisito di essere facilmente raggiungibili con l'auto, senza relazione, come dice Panza, con la città stessa.

Ma c’è un fenomeno più complesso di cui non si parla nell’articolo e che invece è stato rilevato da Orazio Campo al convegno URBS2008, del quale ho riportato parti degli interventi in precedenti post (i link sono a fine post), e cioè il fatto che i grandi centri commerciali hanno una vita (commerciale)non troppo lunga e che, arrivati al termine, si pone il problema del loro riuso e della trasformazione di quegli immensi volumi e aree. E’ ovvio che la prima destinazione plausibile, dal punto di vista della redditività economica, è quella residenziale e questo chiedono le proprietà.

Allora, come dice Campo, questi non-luoghi o superluoghi potrebbero assumere il carattere dei luoghi, potrebbero incamminarsi verso un destino di carattere urbano che avrebbero il pregio di contenere molte delle caratteristiche proprie della città vera, cioè il mix di funzioni, esattamente l’opposto dello zoning. Il condizionale è dobbligo.

Per cui, per eterogenesi dei fini, ciò che nasce come forma suprema della parcellizzazione delle funzioni e della sua corrispondente forma, dell’esplosione della città, potrebbe trasformarsi in un fenomeno urbano virtuoso, il classico rospo che si trasforma in principe azzurro.

In realtà, senza scomodare Orazio Campo, che pure ha il merito di essersi accorto del problema e di indicare una possibile e corretta soluzione, l’architetto Danilo Grifoni, di solida fede muratoriana, redattore di molti Piani Regolatori nella provincia di Arezzo, in relazione ad un outlet in nel comune di Foiano, durante un pranzo tra amici affermò che quell’outlet sarebbe diventata inevitabilmente la nuova Foiano e che quando si autorizzano interventi questo tipo è bene saperlo, pensare alle conseguenze ed essere capaci di saperle affrontare, sia in termini di trasformazione del territorio che sotto il profilo sociale e d economico.
Aveva ragione.

Esistono dunque due casi possibili:
la trasformazione dei superluoghi in città, difficile (ma necessaria) perché il più delle volte le amministrazioni devono operare sotto ricatto da parte dei privati e per i condizionamenti fisici esistenti, data la presenza (o l'assenza) di infrastrutture vincolanti;
la progettazione di nuovi superluoghi, ugualmente difficile, ma un po’ meno, che dovrebbe essere affrontata con lo spirito pragmatico degli inglesi che nei nuovi insediamenti commerciali nelle aree agricole hanno preso come esempio Poundbury, per scelta governativa, che non vuol dire prendere ad esempio lo “stile architettonico" (immagino l’orrore stampato nel viso di molti miei puristi e raffinatissimi colleghi) ma il criterio urbanistico (e qui riesco ad immaginare un po’ meno, visto che è articolo che non sembra interessare loro molto, se non per gli aspetti puramente normativi ), che altro non è che un criterio di “urbanità”, quello dell’unica città possibile in Europa che è quella….europea.

Non siamo molto lontano dalle esperienze del New Urbanism, ovviamente con molti anni di ritardo: dallo sprawl alla città. Basterebbe avere l'umiltà e l'interesse di capire meglio di cosa si tratta.
Prestinenza Puglisi ha trattato il New Urbanism, in un articolo su Lèon Krier, nella rubrica dal non equivoco titolo “Stroncature”, tenendolo a debita distanza con un senso di malcelato disgusto che, scrivendo egli molto bene, sembrava di vederglielo stampato in viso (ovviamente se uno conosce il suo viso, e io, ad esempio, non lo conosco).

Ma quell’esperienza è una realtà che, con i necessari adattamenti e non pensando allo stile architettonico (per carità non disgustatevi), visto che siamo in Italia e non in Florida, Utah o California, potrebbe essere piuttosto utile al caso in oggetto.

Ma il problema principale è: la nostra “intellighenzia” lo vuole, è pronta a guardare ad altezza d’uomo oppure preferisce, come da italico costume, volare alto, molto in alto, stare a disquisire, spaccare il capello, sottilizzare, cercare “altro” di meglio (ovviamente) che sono 80 anni che lo cercano e non l'hanno ancora trovato?



Link ai post sul Convegno URBS2008:

http://regola.blogspot.com/2008/12/note-sul-convegno-urbs.html
http://regola.blogspot.com/2008/12/scoieta-liquida-citta-solida-2.html
http://regola.blogspot.com/2008/12/societa-liquida-citta-solida-1.html

La foto è un progetto di trasformazione di un’area commerciale suburbana a Mashpee, Massachussets di DPZ, Duany, Plater-Zyberk, lo studio più famoso del New Urbansim.
Link:
http://www.dpz.com/projects.aspx
http://www.mashpeecommons.com/development.php

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10 gennaio 2009

EXPO 2015: LA “CITTA’ IDEALE” DI MOZZONI

Pietro Pagliardini

Sul Corriere della Sera leggo un articolo di Guglielmo Mozzoni, architetto, il cui nome confesso essermi fino ad ora sconosciuto, certamente per mia ignoranza.
Immagino subito che non deve essere giovanissimo dal paragone che fa tra le cose difficili della vita e l’Expo, in cui si legge l'appartenenza ad una generazione che apprezza espressioni goliardiche e un po’ rodomontesche, e ciò me lo rende simpatico.

Mozzoni si rivolge al Sindaco di Milano e presenta una intrigante proposta per l’EXPO2015 che mi appare come una piacevole novità.
Dice Mozzoni: “L' importante per una vita in comune, e quindi per l' Expo (anche se nessuno sembra aver voglia di dirlo), è poter vivere oggi in maniera adeguata alle nostre conoscenze attuali, risolvendo in primo luogo il problema urbanistico. Anche perché l' urbanistica racchiude in sé i problemi della vita: dal lavoro alla logistica, dalla fame alla cultura e all'ambiente, dall'inquinamento alla capacità di resistere ai sismi, dalla captazione alla produzione di energie alternative”.

Questa proposta mi sembra una ventata di aria nuova nel panorama delle ultime edizioni delle Esposizioni Universali, fatte di stands, oggetti provvisori e inutili architetture tutte uguali in cui per riconoscerne la provenienza occorreva leggere il cartello, oppure riconoscibili solo dall’autore, il solito “maestro” o “archistar” o aspirante archistar di belle speranze, quasi tutte destinate poi all’abbandono e all’oblio.
Invece Mozzoni propone una cosa seria che ha il solo difetto di chiamare “città ideale”, ma che io ho immaginato come una sorta di “manifesto“ dell’urbanistica cui egli attribuisce giustamente un ruolo primario e necessario per la città, prima dell’architettura, la quale sembra invece diventata, da anni, la creatrice delle città stessa.
Proseguo nella lettura e qualcosa non mi convince ma, avendo letto l’articolo in Corriere.it, non ci sono immagini di questa “città ideale” e non posso capire bene.
Conclude offrendo il suo progetto, a cui dice di lavorare da anni, e si capisce, tanto è ingenua, che è un’offerta sincera, fatta per coronare un lungo lavoro in cui Mozzoni crede e spera, comprensibilmente, di vedere concretizzato.

Cerco subito su Google notizie di Guglielmo Mozzoni e scopro che ha la bella età di 94 anni. Letta anche la biografia ne apprezzo ancora di più l’energia e lo spirito di servizio.
Cerco le immagini della città ideale, le trovo e ….… rimango basito: vedo una sfera di dimensioni grandiose (circa 250 m di diametro) intorno a cui si avvolge una specie di nastro a spirale sul quale si intuisce esservi collocati edifici vari. Approfondisco meglio: ci sono siti e blog che ne parlano, vedo disegni quasi a fumetti di fantascienza, belli in sé, freschi e colorati ma la mia delusione resta grande.
Trovo poi, sempre sul Corriere, un commento molto positivo su quel progetto da parte di Mario Botta. Se alcune considerazioni sono condivisibili, non comprendo le conclusioni: “Si configura quindi per Milano un' «utopia concreta» da proporre al mondo, irripetibile al di fuori dell' evento straordinario dell' Expo; un unicum che si allontana con forza dai modelli offerti dall' attuale globalizzazione. Per le generazioni future Expo 2015 potrebbe divenire così il segno di una nuova speranza urbanistica”.

A me sembra invece che siamo esattamente dentro il modello offerto dall’attuale globalizzazione”, dove la sola differenza consiste nel fatto che a tanti oggetti sparpagliati e indifferenti al contesto, ve ne è uno solo, una macro-struttura, che ne contiene altri. E’ una logica comunque anti-urbana, è l’urbanistica risolta con oggetti, è una sintesi da romanzo di fantascienza della rappresentazione di una città del futuro.

Perché poi il futuro debba essere così rappresentato in forma utopica mi sfugge completamente, tanto più che non credo alle previsioni futurologiche di nessuno, figuriamoci a quelle degli architetti. Quale motivo c’è per andare a fare invenzioni del genere?
Se è vero ciò che dice Mozzoni in premessa, e secondo me è vero, allora la novità dovrebbe essere sì disegnare una città manifesto, ma senza inutili fantasie utopistiche, piuttosto mostrando al mondo che Milano, l’Italia è ancora capace di proporre una città che il mondo stesso ci deve invidiare, come ci invidia Roma, Venezia, Firenze e le migliaia di borghi sparsi su tutta la penisola e le isole, certamente reinterpretato alla luce delle tecnologie che devono caratterizzare una Esposizione Universale del 3° millennio, ma che poi, come dice Mozzoni stesso, possa essere abitata realmente e non rimanga uno spettrale cumulo di rovine.

Insomma l’EXPO2015 dovrebbe essere una vetrina dell’Italia non solo con la Ferrari, la moda, il design, lo spumante e i prodotti alimentari locali, ma soprattutto con l’urbanistica che sia capace di coniugare la storia della città, per la quale il mondo ci apprezza, con la tecnologia. Per fare un banale paragone: qualcosa di simile alla insuperata cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Atene, in cui si fondeva una grande capacità tecnologica alla rappresentazione e al richiamo della storia e dell’arte greca. Riuscire a fare una sintesi della città italiana che serva di esempio anche per il nostro paese e per i nostri amministratori pubblici e i loro architetti, questa sarebbe la novità!

Per questo è necessario fare una città vera, con un tessuto viario a terra e non per aria, una città che funzioni, che limiti l’uso dell’auto, che non obblighi a lunghi spostamenti casa-lavoro, che preveda distanze pedonali contenute, che ricrei la strada con i fronti chiusi, la “rue corridor” che Le Corbusier voleva uccidere e ha ucciso, che preveda spazi di gioco per i bambini senza pericoli, che abbia, soprattutto, una quantità consistente, e collocata nei luoghi nodali giusti, di temi collettivi che siano capaci di dare dignità e senso di appartenenza ai suoi abitanti; dimenticando gli scenari da Flash Gordon.

Quanto al fatto che Botta apprezzi questa proposta, forse è dovuto al fascino che sercita su di lui la forma sferica in sé, vicina alle geometrie elementari, cubi, tronchi di cono, cilindri, semi-sfere di cui Botta fa largo uso. Un motivo in più per capire che siamo sempre nel campo delle forme architettoniche astratte e non nel campo dell’urbanistica.

Mi spiace per l’architetto Mozzoni, ma su quel nastro a spirale si può vivere solo a Dubai per una settimana di vacanza organizzata da un Tour operator, con il casinò al centro, i negozi in cui lasciare lo stipendio, qualche spa e quant’altro, non certo per trascorrere la propria vita normale.
Resta valida tuttavia l'idea essenziale di Mozzoni che dovrebbe essere l'urbanistica a guidare l'Expo.

Dice Nassim Taleb nel suo “Il Cigno nero”: “Non riuscirò mai a conoscere ciò che è sconosciuto perché, per definizione, è sconosciuto. Tuttavia posso sempre indovinare quali conseguenze può avere su di me, ed è in base a questo che devo prendere le mie decisioni”. Ebbene, nessuno può affermare con certezza se in futuro l’uomo sarà costretto a vivere appollaiato ad una città sferica ma possiamo dire, fin da ora, che le conseguenze di questo distacco da terra non sarebbero affatto positive: un motivo in più per scartare questa possibilità.

Se poi il futuro sarà come prevede o piace a Mozzoni e anche a Botta, vorrà dire che avranno avuto ragione loro, ma ne dubito e comunque non credo che lo potremo verificare mai né io, né Mozzoni, né Botta, né chi ha letto questo post.


N.B. Non posso riportare foto della città ideale di Mozzoni perché le immagini sono protette da copy-right.


Riporto però alcuni link:
Su Archiwatch questa proposta di città ideale aveva fatto un passaggio: http://www.archiwatch.it/2006/03/02/nel-mondo-di-papalla.html
http://www.cittaideale.it/
http://cittaideale-gm.blogspot.com/


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6 gennaio 2009

REGOLE

Pietro Pagliardini

Il nome di questo blog, De Architectura, è un pò troppo importante e sontuoso, certamente sproporzionato rispetto alle intenzioni, probabilmente frutto di mancanza di fantasia e di fretta intervenuta al momento della scelta.
Per carità nessun ripensamento o cambio di rotta, però il sottotitolo, “regola”, è quello che definisce meglio lo spirito e le intenzioni del blog.
Regola è un termine allo stesso tempo più circoscritto e modesto, preciso e accessibile, ma contemporaneamente riveste un carattere più generale.

De Architectura, sarà per la lingua latina, indirizza subito verso uno stile, una classicità e può dare l’impressione di escludere altre forme di architettura che pure rispettano la triade vitruviana, quali ad esempio l’architettura di base tradizionale, quella vernacolare ed anche architetture moderne e perfino contemporanee (poche in verità) che sono rispettose di quei principi.
Insomma, De Architectura non evoca solo le tre regole di firmitas, utilitas e venustas ma diventa inevitabilmente un veicolo che richiama alla memoria l’architettura aulica classica, quella della storia dell’architettura, quella rappresentativa dei grandi edifici specialistici e quella dei grandi architetti.

Regola, invece, non esclude niente, o meglio esclude solo l’architettura senza regole, che è poi quella che ha la sola regola di stupire e far parlare tanto di sé quanto del proprio autore.
Regola non esclude l’edilizia di base, quella che nella maggior parte della critica non assurge all’Olimpo dell’Architettura, ma che viene invece ignorata se non dileggiata e schernita mentre in realtà costituisce, per quantità e qualità, il corpo delle città.
Non esclude, ovviamente, il centro storico, che è l’incarnazione stessa delle regole non scritte ma cogenti e rispettate perché spontanee e non esclude nemmeno quanto di più disprezzato e negletto vi sia nella storia degli insediamenti umani contemporanei, cioè favelas e baraccopoli, dove si ritrovano invece molte delle regole dei tessuti urbani tradizionali.

Le regole, in un certo senso, fanno parte dell’architettura anche per coloro che, come Bruno Zevi, hanno cercato, fino alla deriva nichilista e de-strutturante del grado-zero assoluto, un linguaggio (e perciò regole) alternativo al classicismo, con un accanimento da conflitto irrisolto con il padre (il classicismo) e, in questa ricerca senza fine perché circolare, si sono persi senza trovarne di accettabili e condivisibili, se non quella, unica, di non avere altra regola che non derivi dalla potenza titanica dell’architetto che fa dell’architettura “il termometro e la cartina di tornasole della giustizia e della libertà radicate nel consorzio sociale. Decostruisce le istituzioni omogenee del potere, della censura, dello sfascio premeditato, e progetta scenari organici. Fuori di una modernità impegnata, sofferta e disturbata non c’è poesia architettonica”. [Bruno Zevi, Architettura della Modernità, 1994].

E’ chiara la visione di un’architettura che, diventando il mezzo di contrasto mediante il quale si può verificare il grado di libertà di una società politica, finisce per destrutturare la società stessa e le sue istituzioni, anch’esse ritenute, al pari dell’accademia e del classicismo, come oppressive della libertà. In Zevi è evidente il legame tra organizzazione politica della società e architettura, e la rottura delle regole di questa sono la distruzione di quella. Ma non si tratta di una visione schiettamente anarchica la quale in verità assegna all’individuo e alla sua libertà il compito di organizzare la società secondo dinamiche proprie non demandabili allo Stato e che prevede “una società che vuole basarsi sul libero accordo, sulla solidarietà, sulle libere associazioni, su federazioni, sul rispetto per la singola individualità che non volesse farne parte”, piuttosto di una concezione che svuota la società di ogni fondamento mediante l’esaltazione del superuomo che, in solitudine, fissa le proprie regole, senza dialogo alcuno con gli altri individui.
Infatti che dialogo architettonico esiste tra una Archistar e l’altra? Nessuno, non potrebbe esserci, perché ogni opera, o meglio ogni autore, fa ciò che vuole come lo vuole con una propria lingua che deve essere rigorosamente diversa da quello dell’altro. Questa è la regola-non-regola.
Tale culto dell’individuo, svincolato da regole e storia, è teorizzato da Zevi anche per il restauro scientifico che “soltanto un architetto schiettamente moderno e colto, che senta il restauro come un compito artistico, e intuisca la possibilità di creare, rispettando tutto ciò che esiste di antico , una nuova immagine poetica, necessariamente diversa dall’antica ma ad essa consona” [Bruno Zevi, Architettura in nuce, 1960].
Quindi, anche in un campo in cui le teorie d’intervento sono maggiormente verificabili, dove ci si confronta con la storia, tutto viene demandato all’architetto-artista che al solito, libero da altri criteri che non siano quelli individuali, con la propria “schietta modernità e cultura”, difficilmente potrà dialogare con alcuno e altrettanto difficilmente potrà essere giudicato, dato che non c’è lingua comune su cui intendersi.

Ma non potendo dialogare nemmeno tra loro, queste architetture solipsistiche non possono dialogare nemmeno con gli utenti, con gli individui che le dovranno abitare o fruire o subire; con ciò, seguendo la logica dello stesso Zevi, accade che al potere oppressivo delle istituzioni si sostituisce quello ben più pericoloso, perché non democraticamente controllabile, dell’architetto.

Questo è il risultato della poesia architettonica.


Di regole scriverò ancora.

N.B. L'immagine dell'uomo vitruviano-robot è tratto dal blog Dei o Demoni

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